domenica 20 novembre 2011

Manga Academica 4

Il quarto volume di Manga Academica, rivista scientifica dedicata alla cultura e al fumetto giapponese curata da Gianluca Di Fratta, è stato pubblicato.

Manga Academica Vol.4, Società Editrice La Torre, Caserta, 2011. Il volume contiene un saggio introduttivo di Cristiano Martorella e un manga inedito di Moto Hagio.


Cristiano Martorella, Perverso e controverso: il sesso nella cultura giapponese, in "Manga Academica", Vol.4, Società Editrice La Torre, Caserta, 2011, pp.9-22.

lunedì 20 giugno 2011

Letteratura, tecnologia e manga

Articolo sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.


Dokusho
La lettura fra scienza e tecnologia
di Cristiano Martorella

Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?
Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).
Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.
Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi. L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio. La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?


Note

1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.

Bibliografia

Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.
Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.
Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.
Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.
Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.
Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.




Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.

La tecnologia giapponese

Koden
di Cristiano Martorella

Con il termine koden si indica una serie di interfacce elettroniche. Traducibile all’incirca come "individuo elettrificato", la parola giapponese è composta da ko (individuale) e denshi (elettronico). Dunque, una integrazione dell’elettronica con l’organismo umano, così come immaginato da Nicholas Negroponte (1). Sarebbe un koden, ad esempio, il walkman della Sony che permette di camminare ascoltando musica. Oppure la playstation che proietta l’individuo in un mondo virtuale interagendo con la realtà simulata.
Molti hanno interpretato negativamente il fenomeno koden. Renata Pisu ha usato toni apocalittici parlando di "scenari di mutazioni globali". Non è però la prima volta che la tecnologia giapponese viene descritta con la prospettiva dell’ideologia.
Nicholas Negroponte, fra i massimi esperti di informatica e tecnologia digitale, ha colto invece le possibilità positive di queste trasformazioni.

"Media da indossare. Velluti che fanno calcoli, mussole dotate di memoria, sete a energia solare: con questi tessuti potrebbero essere fatti gli abiti digitali di domani. Invece di tenere il computer in mano, indossalo. Anche se non ce ne rendiamo conto, già ora ci portiamo addosso un numero sempre maggiore di dispositivi per elaborare e comunicare. L’orologio da polso è il più comune. Da strumento per misurare il tempo qual è oggi, si trasformerà domani in un centro mobile di comando e controllo. Lo si porta con tale naturalezza, che molta gente se lo tiene anche quando dorme". (2)

Completamente diversa l’opinione di Renata Pisu che vede la tecnologia come una minaccia, come risulta dal seguente brano:

"Ma anche senza arrivare a questi estremi, come mai l’elettronica di consumo riscuote tanto successo in Giappone più che in ogni altro paese del mondo? C’è forse qualcosa di connaturato nella cultura giapponese, una naturale predisposizione a mettere sullo stesso piano organico e inorganico? […] Ma si tratta di affettività umana o "umanoide"? Il quesito può apparire assurdo, eppure l’orrendo termine giapponoide sta già entrando nell’uso per indicare i giapponesi, uomini la cui umanità avrebbe subito una mutazione. Si presentano, infatti, come pre-moderni e post-moderni, si direbbe quasi che la modernità fosse stata vissuta da loro come un tempo fuori dal tempo, durante il quale alacremente, si sono appropriati della tecnologia venuta da lontano per poi introiettarla. E questa introiezione avrebbe provocato in loro la mutazione: da giapponese a giapponoide, cioè un umano che vive in un paese dove è stata realizzata una sorta di tecno-utopia, un umano che è un koden, un individuo il cui corpo è elettronificato e che non potrebbe vivere senza le sue protesi tecnologiche, sempre più "incorporate", cioè pensate in modo da fondersi con la persona, oppure studiate in modo da condizionare i ritmi e i piaceri".

Ma le affermazioni di Renata Pisu non si fermano qui. Il koden è addirittura paragonato alla droga: il computer e la playstation come l’eroina.

"Il fenomeno limite dell’hikikomori è possibile soltanto in una società che ha attuato questa elettronificazione di massa e che permette, quindi, ai giovanissimi un rifiuto della realtà grazie al sostituto virtuale ottenibile con le varie "protesi", da Internet al videogioco, alle quali tutti hanno accesso. In società meno tecnologicamente avanzate, il rifiuto si esprime in altri modi, con la droga prima di tutto e poi con la violenza o con altri vari tipi di comportamenti asociali". (3)

Renata Pisu dimostra, senza accorgersene, quanto sbaglia. Non sono necessarie droghe chimiche o virtuali per delirare. Infatti è semplicemente sufficiente aderire a un’ideologia per vedere nel diverso, in questo caso il Giappone e i giovani, l’apice di tutti i mali.
A favore dell’interpretazione propositiva della tecnologia giapponese ci sono le ricerche di numerosi studiosi che sono state sistematicamente occultate per costruire una rappresentazione stereotipata e negativa del Giappone contemporaneo. Il volume Electric geisha (4) presenta un quadro totalmente diverso da quello descritto da Renata Pisu. Gli autori, estremamente qualificati (sono quasi tutti professori universitari), innanzitutto smentiscono l’idea di un Giappone che acquisisce, copiandole, le tecnologie occidentali. I giapponesi sono fra i maggiori inventori di brevetti, ed è ormai privo di senso pensare alla tecnologia come qualcosa di occidentale. La tecnologia non è concepibile come un’esclusiva culturale.
Electric geisha è un libro corale in cui gli autori approfondiscono i diversi aspetti che collegano la tecnologia e la cultura giapponese. Hashizume Shin’ya descrive le caratteristiche del piacere del bagno, Hayama Tsutomo racconta la passione del pachinko, Moriya Takeshi spiega il successo dei corsi di arti tradizionali, Kato Akinori si occupa del fenomeno delle vacanze all’estero, Narumi Kunihiro ci parla del karaoke, Yoshii Takao delle origini dei mezzi di comunicazione di massa nel periodo Edo (1603-1867) e Meiji (1868-1912), e così via. Insomma, argomenti concreti dove la tecnologia svolge il suo ruolo autentico: un mezzo finalizzato alla realizzazione di uno scopo.
L’interpretazione del koden da parte di autori come Renata Pisu risulta quindi parziale e viziata da pregiudizi ideologici che leggono ogni fenomeno tecnologico come diabolico. Ma la tecnologia, incluso il koden, non è né un bene né un male, è soltanto un mezzo il cui uso (buono o cattivo) dipende dall’uomo.


Note

1. Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995. Negroponte, uno dei maggiori esperti mondiali di comunicazione digitale, professore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e direttore del Media Lab.
2. Cfr. Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995, p.219.
3. Pisu, Renata, Samurai robot, in "L’Espresso", n.29, anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.116.
4. Ueda, Atsushi (a cura di), Electric geisha, Feltrinelli, Milano, 1996.

Bibliografia

Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone, Einaudi, Torino, 2001.
Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.
Pisu, Renata, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001.
Ueda, Atsushi (a cura di), Electric geisha, Feltrinelli, Milano, 1996.
Hall, Rupert e Boas Hall, Marie, Storia della scienza, Il Mulino, Bologna, 1991.

martedì 26 aprile 2011

Orientalismo vero e presunto

Orientalismo vero e presunto
Equivoci e fraintendimenti sull'opera di Hiroki Azuma
di Cristiano Martorella

La pubblicazione in Italia del libro Generazione Otaku (1) di Hiroki Azuma ha riproposto una serie di questioni spesso equivocate e fraintese, su cui è bene fare chiarezza. Alcune argomentazioni hanno infatti inquadrato il volume nell'ambito della polemica sull'orientalismo (2). Il termine orientalismo, in una accezione fortemente negativa e dispregiativa, indica un atteggiamento essenzialista che stabilisce un insieme eterogeneo di preconcetti e stereotipi sulla civiltà orientali. Il problema più grave della polemica contro l'orientalismo è lo squlibrio di questa posizione teorica che non fa distinzioni e rischia di negare le specificità delle società asiatiche e le differenze culturali.
La critica contemporanea all'orientalismo è contigua e complice dell'attacco al relativismo tipico della nostra epoca. Non capirlo significherebbe altrimenti essere incantati dalla retorica logorroica della polemica fine a se stessa, perché orientalismo e relativismo culturale sono strettamente connessi. Dal punto di vista storico, infatti, l'orientalismo nasce con l'Illuminismo nel XVIII secolo, quando i philosophes formularono l'idea di relativismo (3) fondamentale a scardinare le certezze teologiche delle epoche precedenti.
Postulare la differenza di valori, credenze, culti religiosi e istituzioni delle società non è soltanto un vezzo dei relativisti, ma è un metodo necessario e indispensabile per lo studio di qualsiasi società. Se non si applica il metodo del relativismo culturale si cade nel più becero etnocentrismo e nell'ottuso dogmatismo, o perfino nell'irrazionalismo e nella superstizione. Dunque l'orientalismo non può essere ridotto e considerato come una deformazione o tendenza equivoca, ma deve essere valutato contestualmente in relazione ai fatti storici.
L'aggravante nell'uso negativo del termine orientalismo proviene dalla citazione impropria del lavoro di Edward Said che invece ne fece un uso in un ambito filologico molto circostanziato. Infatti si è abusato degli studi dell'arabo Edward Said per rigettare la storiografia sulla civiltà giapponese, in modo da evitare qualsiasi confronto con i nipponisti e invalidare la ricerca scientifica. Se visto sotto un certo punto, ciò risulta molto buffo. Edward Said, intellettuale palestinese nato a Gerusalemme nel 1935, cita la Cina e il Giappone per far notare la confusione che avviene in orientalistica utilizzando le stesse idee per civiltà estremamente differenti (4). L'errore denunciato da Said è il medesimo che viene compiuto da chi usa il suo stesso lavoro indirizzato esclusivamente al mondo islamico per spiegare il Giappone. Edward Said nel suo libro intitolato Orientalismo, cita il Giappone soltanto sei volte e quasi sempre per indicarne le diversità dal contesto analizzato. Il fatto che il lavoro di Said sia rivolto in modo particolare al mondo islamico è dichiarato esplicitamente dall'autore, come risulta dal seguente passaggio:

"Per ragioni che esporrò tra breve ho ulteriormente limitato questo ambito di ricerca (comunque ancora estesissimo, a ben guardare) all'esperienza anglo-francese-americana nel mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l'Oriente. Sono così rimaste escluse vaste zone dell'Oriente geografico e culturale - India, Giappone, Cina e altre regioni dell'Estremo Oriente - , non perché queste ultime non siano importanti (è anzi ovvio che lo sono), ma perché l'esperienza europea del Vicino Oriente e del mondo islamico può essere discussa separatamente da quella dell'Estremo Oriente." (5)

Gli imitatori incauti di Edward Said, ovvero coloro che usano le sue idee in modo improprio e fuorviante, hanno cercato di sostenere che ogni studio sulla società giapponese fosse una semplice rappresentazione astratta, e soprattutto hanno contestato l'unità culturale nipponica frantumandola in decine di subculture ancora più astratte della cultura originaria. Il risultato è affascinante, ma pieno di equivoci, fraintendimenti e falsità. Soprattutto risulta ambiguo il tentativo di fornire un quadro alternativo della cultura giapponese che è però in contraddizione con la cultura tout court.
Questi equivoci sull'orientalismo sono pericolosi perché favoriscono il rischio della negazione di fatti storici accertati, sbrigativamente etichettati come preconcetti e stereotipi. Ciò non è soltanto assurdo, ma mina profondamente la credibilità degli studi inerenti alle civiltà orientali. Per quanto riguarda il Giappone, per esempio, una cattiva interpretazione dell'orientalismo impedisce di comprendere il fatto storico dell'ascesa della borghesia nell'epoca Edo (1603-1867). L'idea rozza che l'antiorientalismo presenta con superficialità, sostiene che il periodo Edo fosse caratterizzato da uno sfruttamento delle classi di contadini, artigiani e mercanti da parte dell'aristocrazia (6). In realtà è vero l'esatto contrario. La classe emergente dei commercianti aveva assunto un potere tale da condizionare i samurai. I samurai erano pagati in riso, e per ottenere la moneta necessaria, dovevano convertire il riso in denaro presso i mercanti che speculavano fortemente sul cambio. Inoltre i samurai si indebitavano spesso con i mercanti ed erano vittime di ricatti e pressioni. Le quattro classi (shimin) erano composte da aristocrazia guerriera (bushi), contadini (nomin), artigiani e commercianti (shomin). Nell'epoca Edo la classe emergente era quella dei commercianti. Addirittura molti samurai rinunciarono al loro status per diventare commercianti. Il caso più eclatante fu quello di Takatoshi Mitsui (1622-1694) che fu fra i primi a rinunciare al rango di samurai per divenire commerciante fondando i negozi Mitsui, in seguito conosciuti come un potente zaibatsu (ancora oggi esistente). Perciò si può affermare che la società giapponese sia stata caratterizzata nel suo sviluppo storico da una notevole mobilità sociale, aspetto estremamente trascurato dagli studiosi.

In conclusione, la polemica sull'orientalismo presenta più criticità dello stesso orientalismo, e offre molti più stereotipi e preconcetti. La polemica, quindi, non è soltanto inconcludente ma anche inaffidabile. Si dice che l'epoca postmoderna sia caratterizzata dall'incertezza e dall'ambiguità, ma se ciò influisce anche sulla ricerca scientifica mancando una conoscenza rigorosa e precisa, si rischia di essere invischiati in un irrazionalismo indefinito e farraginoso.


Note

1. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku. Uno studio della postmodernità, introduzione e cura di Marco Pellitteri, Jaca Book, Milano, 2010. Il titolo originale dell'opera è però diverso: Un postmoderno animalizzante. Cfr. Azuma, Hiroki, Dobutsuka suru posutomodan. Otaku kara mita Nihon shakai, Kodansha, Tokyo, 2001.
2. Sulla questione dell'orientalismo si consulti l'edizione italiana del libro di Hiroki Azuma. Cfr. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku, op. cit., p.27.
3. Ciò dovrebbe essere ben noto anche a chi non ha approfondite conoscenze accademiche, ma ha semplicemente frequentato un corso di filosofia in qualche liceo. Si consulti, per esempio, un celebre volume di Nicola Abbagnano. Cfr. Abbagnano, Nicola, Storia della filosofia. La filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, vol.4, TEA, Milano, 1995, pp. 236-281. L'opera più ferocemente relativista e ironica è comunque il racconto Micromega di Voltaire, in cui un abitante della stella Sirio deride la credenza che l'uomo sia il centro e il fine dell'universo. Nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau si fa notare come la società umana sia una costruzione artificiale, e quindi relativista, che è spesso in contrapposizione con la spontaneità della vita naturale.
4. Edward Said aveva messo in evidenza queste differenze in un suo articolo sul Giappone. Cfr. Said, Edward, Un arabo a Tokyo, in AA.VV., Sol Levante, Internazionale, Roma, 1996, pp. 69-72. L'articolo era apparso sul quotidiano "Al-Hayat" del 10 luglio 1995.
5. Said, Edward, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-26.
6. Sulla questione si consulti Azuma, Hiroki, Genererazione Otaku, op. cit., pp. 25-26.

mercoledì 18 giugno 2008

La positività etica dei manga eroi

La rivista "Diogene Filosofare Oggi" pubblicò due articoli dedicati al dibattito sui valori etici dei manga. Chi scrive, in qualità di studioso di cultura giapponese, fu interpellato per spiegare i valori positivi dei manga. Quello che segue è l'articolo che è stato pubblicato dalla rivista.

Cfr. Cristiano Martorella, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3 anno II, marzo-maggio 2006, pp.58-59.


La positività etica dei manga eroiI fumetti giapponesi: un tentativo di creare significati in una società senza punti di riferimento
di Cristiano Martorella

I manga sono i celebri fumetti giapponesi che stanno affascinando intere generazioni di giovani, gli anime sono i cartoni animati sempre di produzione nipponica. Intorno a un fenomeno di intrattenimento apparentemente futile, si è sviluppato un dibattito, spesso dai toni vivaci, sul valore educativo di questo genere di letture, e in generale sull’impatto di cartoni animati e fumetti. La questione nasce nel 1979, con la protesta dei genitori di Imola, quando la trasmissione del cartone animato di Mazinga provocò la reazione decisa di educatori e psicologi. Si ravvisavano potenziali pericoli per la salute dei bambini, veicolati dalla fruizione di fumetti e cartoni animati giapponesi. Addirittura fu teorizzato un trauma provocato dalla visione di immagini violente o estranee alla nostra cultura. Anche se personaggi autorevoli e attendibili come la psicologa Liliane Lurçat e lo scrittore e pedagogista Gianni Rodari dichiararono esagerati simili allarmismi, lo scontro fra i due fronti pro e contro non mutò. Tuttavia sull’onda del successo delle pubblicazioni di testate dedicate ai manga, molti autori iniziarono a descrivere anche i valori propositivi contenuti nei fumetti e cartoni animati giapponesi. Nel 1994 il giornalista Luca Raffaelli pubblicò il libro Le anime disegnate, nel quale si affrontava il tema sostenendo il punto di vista giapponese e il relativismo dei valori. Nel 1999 l’esperto di fumetti e animazione Marco Pellitteri pubblicò un corposo volume intitolato Mazinga Nostalgia, nel quale si affermava l’esistenza di una generazione di giovani che si erano formati sui valori dei fumetti e cartoni animati giapponesi. La formazione di nuove competenze fra gli studiosi, e la coscienza del problema fra gli appassionati del genere, molti dei quali divenuti adulti, portò perciò allo sviluppo di una situazione diversa. Quando i soliti critici, fra cui spiccano la psicologa Vera Slepoj e l’opinionista Antonio Marziale, attaccarono i personaggi dei Pokémon (a cui erano dedicati libri, cartoni animati, giochi di carte, giochi per consolle), la risposta che fu fornita fu decisa e netta. Nel 2002 Marco Pellitteri curò la pubblicazione di Anatomia di Pokémon, un volume scritto da uno staff di esperti e studiosi di varie discipline che analizzavano in modo scientifico e accurato il fenomeno. Naturalmente i sostenitori della minaccia del relativismo dei valori di manga e anime non seppero ribattere in alcun modo alle tesi sostenute nel volume, dimostrando quanto le loro accuse fossero infondate, vaghe e generiche. Da allora gli appassionati di manga e anime hanno assunto un’importanza non più trascurabile. Il fenomeno del successo dei fumetti giapponesi non è sparito come una moda passeggera, così come avevano sperato erroneamente molti critici. Al contrario si è consolidato nella società italiana. Per questo motivo l’argomento dei valori etici dei manga è assunto a livelli inaspettati e diventa meritevole di una trattazione esaustiva.Innanzitutto, si deve partire dall’accettazione che manga e anime sono il prodotto di una cultura diversa dalla nostra. I giovani hanno trovato in questo relativismo culturale una ricchezza che la società italiana non forniva da molti anni. Esaurito l’elemento innovativo proposto dalla cultura pop americana, i giovani hanno saputo guardare più lontano rivolgendosi all’Estremo Oriente e al Giappone. Le critiche basate sull’estraneità della cultura espressa da manga e anime sembrano perciò rafforzare il valore etico della diversità culturale. I punti di forza della cultura giapponese sono nell’arte secolare della grafica capace di riempire di significati pochi segni. Una capacità che Roland Barthes aveva messo in evidenza nel saggio L’impero dei segni. L’altro punto di forza è il sistema filosofico giapponese che non si fonda su una conoscenza speculativa di difficile comprensione, ma sulla trasmissione di sentimenti condivisi. Tutto ciò secondo i princìpi di shintoismo e buddhismo. Per questo motivo anche le forme narrative più semplici possono contenere concetti filosofici ed estetici tipici della cultura giapponese. Vediamo alcuni aspetti evidenziati dai critici che hanno ravvisato temi molto interessanti nella diversa concezione narrativa di manga e anime. Luca Raffaelli, Marco Pellitteri e Alessia Martini insistono sulla differenza fra supereroi americani ed eroi giapponesi. I supereroi americani sono personaggi con poteri straordinari e forza sovrumana che operano in modo solitario, invece gli eroi giapponesi sono spesso gracili adolescenti alla guida di robot. Mentre gli americani usano la forza bruta, i giapponesi si appellano alla forza di volontà, al senso del dovere, ai princìpi etici e al lavoro di squadra. La presenza di robot nelle storie giapponesi ha lo scopo di amplificare il valore dei sentimenti umani. Quando l’androide è un cyborg, ossia metà uomo e metà macchina, il suo animo umano prevale sulla macchina. Il contrasto fra meccanico ed essere vivente si svolge drammaticamente mostrando l’incommensurabile superiorità della natura umana dotata di risorse imprevedibili. Gli esseri umani sono capaci di azioni incomprensibili per le macchine incapaci di ragionare al di fuori di schemi logici e razionali prefissati. Storie come Kyashan svolgono questo tema fino al limite e alle estreme conseguenze. Ciò è stato rilevato anche dallo studioso di filosofie orientali Marcello Ghilardi. Il merito di manga e anime è quello di aver esaltato positivamente l’irrazionalità umana e l’ineffabile potere dell’io, in un’epoca di eccessiva dipendenza dalle macchine e dalla tecnologia, giunta fino allo strangolamento dell’esistenza operata dalla burocrazia. Lo stesso atteggiamento drammatico è espresso nei confronti della guerra. Invece di fingere la necessità di un conflitto che è soltanto un misto sanguinolento di follia e distruzione, gli eroi giapponesi esprimono il loro disgusto per la guerra. Essi combattono perché costretti dalle circostanze. Tuttavia non si risparmiano nell’esprimere il loro ribrezzo per lo sterminio di vite nella follia collettiva chiamata guerra. Non si fingono operazioni umanitarie per il mantenimento della pace, non si indicano le vittime innocenti col nome di danni collaterali. Il volto autentico e spietato della guerra viene mostrato senza pietà. Certamente una simile rappresentazione non è affatto utile al convincimento per l’arruolamento nell’esercito. Infatti il boom di manga e anime è coinciso in passato con l’escalation delle domande di obiezione di coscienza al servizio militare quando era ancora obbligatorio. Marco Pellitteri e Alessia Martini sono convinti che la generazione cresciuta con i cartoni animati giapponesi sia essenzialmente pacifista e antimilitarista. Un altro elemento trattato è il rapporto con la natura. Un esempio è fornito dai personaggi dei Pokémon, piccole creature fortemente legate all’ambiente e capaci di evolversi soltanto in particolari condizioni. Ogni Pokémon ha un elemento di origine, così un Pokémon d’acqua sarà più abile nel mare, uno di fuoco in un vulcano, uno di elettricità in una tempesta. Molte serie a fumetti giapponesi raccontano lo stravolgimento operato dall’uomo contro la natura, e denunciano la distruzione provocata dall’inquinamento. Spesso propongono di recuperare l’antico equilibrio e l’armonia fra essere umano e natura tramandato attraverso le credenze shintoiste. Questo è il caso della Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Ulteriore importante elemento è il relativismo delle categorie di bene e male. In regola con i princìpi buddhisti che non concepiscono una natura maligna in assoluto, il bene e il male sono considerati come conseguenze dei comportamenti dei personaggi. Così non è raro che un personaggio cattivo decida di cambiare atteggiamento, convinto dalla determinazione e generosità del buono, e passi dall’altra parte. Accade nel fumetto di Dragon Ball, dove Junior diventa grande amico di Goku e tutore di suo figlio Gohan. Infine, ultimo ma non meno incisivo, è l’elemento sessuale. I fumetti giapponesi sono l’unico prodotto per giovani che narrano spontaneamente e senza tabù la sessualità, senza nascondere nemmeno i desideri pruriginosi e le perversioni. Si tratta di una libertà sessuale che gli altri mezzi narrativi stanno conquistando con fatica e fra innumerevoli polemiche. I giovani sono convinti che la libertà sessuale sia un diritto imprescindibile, e non sopportano la morale bigotta che tenta di reprimerli. Per questo hanno riconosciuto nei manga una forma di espressione privilegiata dei loro desideri ed emozioni. Prima di concludere, è doveroso soffermarsi brevemente sul fenomeno degli otaku, gli appassionati di manga e anime che hanno trasformato la loro passione in ragione di vita. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona giapponese di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. Per questo motivo ci sembra giusto interpretare i manga e gli anime come un tentativo di creare significati in una società che ha perso ogni punto di riferimento.


Bibliografia

Barthes, Roland, L'impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.
Ghilardi, Marcello, Cuore e acciaio, Esedra, Padova, 2003.
Lurçat, Liliane, Il bambino e la televisione, Armando, Roma, 1985.
Martini, Alessia, I robottoni, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.
Pellitteri, Marco (a cura), Anatomia di Pokémon, Seam, Roma, 2002.
Prandoni, Francesco, Anime al cinema. Storia del cinema d'animazione giapponese, Yamato Video, Milano, 1999.
Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.

giovedì 12 giugno 2008

La perversione giapponese

Ripropongo il mio articolo sulla perversione giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Etchi.


Etchi. Perversione e gioventù giapponese
di Cristiano Martorella

8 aprile 2003. Il termine giapponese etchi significa perversione, oscenità. Si dice, ad esempio, etchi na hon per indicare un libro osceno (in inglese blue book). L'etimologia di etchi proviene dalla pronuncia giapponese della lettera H, iniziale di hentai (anormalità, perversione). Useremo questa parola per circoscrivere un concetto che probabilmente sarà più elaborato di quanto il significato intuitivo possa far pensare.Dopo lo straordinario successo della conferenza(1), non potevamo esimerci dal tornare sull'argomento della gioventù giapponese per approfondirlo. Sappiamo quanto scalpore abbiano provocato le polemiche sulla questione, e in molti ci hanno chiesto di sviluppare l'indagine appena avanzata. Abbiamo già evidenziato la confusione generata dalla stampa sui manga e la gioventù giapponese(2), però una simile osservazione implica una ricerca più poderosa capace di smuovere il pensiero dal torpore consuetudinario. La stampa italiana ha insistito sulla correlazione fra la gioventù giapponese e il sesso, i fumetti, la masturbazione e la prostituzione veicolati attraverso un uso massiccio ed eccessivo della tecnologia e delle telecomunicazioni. Queste ipotesi, prive di verifiche, sono state amplificate da articoli sensazionalistici che annunciavano disastri e nuove malattie neurologiche causate dalle perversioni giapponesi(3). Se partiamo dall'assioma che la società giapponese sia un aggregato di perversioni, possiamo ribaltare la questione tracciando le coordinate di una simile geometria. L'assioma della perversione giapponese parte dalla costruzione di una geometria che considera il modello sociale occidentale quale riferimento assoluto e ideale. Questo modello fonda la sua centralità sull'enunciato dell'individualismo cosmico. Per l'occidentale l'individuo è sacro, l'io è dio. A dispetto di tale affermazione, l'individualità viene svilita poiché elevata a un principio astratto e universale che elimina il particolare. Ecco allora apparire la perversione, ciò che perturba l'ordine precostituito. La cultura giapponese che unisce lo shintoismo degli otto milioni di dei e il buddhismo dell'eterno mutamento propone una comprensione pluralista che include la contraddizione nella natura della realtà invece di escluderla. La società occidentale riconosce il pericolo sovversivo costituito da una simile concezione che mostra un'alternativa alla logica binaria del bene e del male. Soprattutto coglie la minaccia che il sistema ideologico capace di giustificare l'agire politico ed economico delle potenze del monoblocco occidentale possa essere messo in discussione.Nella cultura giapponese la perversione è simbolo della libertà. Non è un peccato, ma l'affermazione dell'individualità. L'etica confuciana condannava il doppio suicidio per amore (shinju), eppure la maggioranza dei giapponesi era attratta da questa affermazione assoluta dell'individuo capace di opporsi alla società. Il successo dei drammi sull'argomento dimostrò l'artificiosità dell'etica e il prevalere della passionalità sulla burocrazia. Insomma, per i giapponesi il confronto fra eros ed ethos vede prevalere di misura il primo (qualcosa di simile avveniva nella tragedia dei greci, anch'essi pagani come i giapponesi). Nel 1908 la scrittrice Hiratsuka Raicho aveva emblematicamente affermato il primato dell'individuo tentando il suicidio con il suo amante. Nel 1948 commise shinju Dazai Osamu, scrittore dissacratore della società contemporanea. Nel 1970 si suicidò Mishima Yukio artefice della "morte erotica" (definizione del biografo John Nathan). In tutta la sua opera egli aveva indicato l'identità di eros ed ethos. Dunque assistiamo a una costante nella storia culturale giapponese. Gli occidentali non soltanto considerano il suicidio un peccato, ma addirittura un tabù. Non se ne discute, e chi lo pratica viene considerato disturbato, oppure commiserato per l'errore commesso. Gli occidentali sono così schiavi del loro dio unico che non posseggono nemmeno la propria vita. Poiché la vita è considerata un dono di dio, nessuno può privarsene essendo cosa che non gli appartiene. La violazione equivale a un peccato mortale, all'abuso della proprietà altrui. Così si smaschera l'ipocrisia dell'individualismo occidentale, una forma di alienazione della vita che viene concessa dalla divinità. La stessa forma di alienazione efficacemente applicata dal capitalismo che espropria il lavoro al lavoratore. La religione occidentale espropria la vita al vivente. Non è una coincidenza se si considera l'analisi di Max Weber che rintraccia una sostanziale influenza fra cristianesimo e capitalismo(4). La pericolosità della perversione giapponese non è etica, ma assolutamente politica, come stiamo qui scoprendo. La gestione dell'eros corrisponde a dominare l'organizzazione sociale contemporanea. Il timore per il potere economico giapponese è calato, però non è diminuita la minaccia rappresentata dall'eros nipponico. Le strane tribù giapponesi stanno contaminando i giovani e ingenui adolescenti europei con un armamentario straordinario e terrificante di fantasie e perversioni. Nessuna legge e censura è riuscita finora ad arrestare la minaccia. Attraverso la lettura dei manga si alimenta una passione evasiva ed eversiva che danneggia, così si crede, i futuri cittadini europei. Questa è la tesi sotterranea che alimenta i pregiudizi sui giovani e le loro letture. I segnali inquietanti della degenerazione sono colti nelle manifestazioni della disubbidienza. Il rifiuto totale della guerra espresso dai cortei pacifisti ne sarebbe l'indizio. Ciò che spaventa è una gioventù ribelle priva di ideologia che contesta radicalmente il modello occidentale.Se le cose stanno così, allora conviene schierarsi dalla parte della perversione, proclamando la virtù della perversione. I giovani italiani hanno conosciuto l'atrocità della guerra attraverso le snervanti battaglie giapponesi proiettate sui teleschermi(5). Se per gli adulti esse erano diseducative, perché strabordanti di violenza, per gli adolescenti erano istruttive perché mostravano l'autentico volto della guerra. Alle parole dei moralisti si opponeva il sangue che colava sulla spada. Nel Novecento si poteva parlare senza smentita di guerra giusta, nel Terzo Millennio ciò non era più consentito senza una vigorosa reazione di sdegno. La nuova generazione condannava sia la guerra giusta sia la guerra santa come artifici retorici per giustificare la guerra atroce. La minaccia si era tramutata in realtà: i fumetti e l'animazione giapponese avevano educato gli adolescenti secondo i valori del paese del Sol Levante, una nazione che aveva conosciuto gli orrori della guerra, del militarismo, dell'industrializzazione selvaggia e aveva reagito con vigore e prontezza fornendo una critica severa dell'imperialismo e del capitalismo.La pedagogia occidentale ha cercato inutilmente di imporre le avventure dei paperi in sostituzione delle oscene studentesse guerriere. Non vi è riuscita. Nemmeno i comitati organizzati dagli esperti Maria Rita Parsi, Vera Slepoj e Antonio Marziale, instancabili oppositori di anime e manga, sono riusciti a cancellare i cartoni animati giapponesi dallo schermo. Perfino le leggi più severe si sono rivelate inapplicabili. Perché? La risposta è semplice e disarmante. Manga e anime presentano una prospettiva capace di fornire una lettura critica della realtà. Cancellarli equivarrebbe a evitare di mettere in discussione la realtà. Ma chi ha assaggiato il frutto proibito dell'albero della conoscenza vuole continuare a mangiarne. Chi ha cominciato a pensare liberamente non accetta le imposizioni di un dio che ci vuole mantenere nell'ignoranza.Questo per quanto riguarda la situazione italiana. Ma per la società giapponese, quali considerazioni vanno svolte? Ciò che gli studiosi hanno mancato di sottolineare è la capacità della cultura giapponese di creare forti voci di dissenso. In Giappone, come abbiamo già evidenziato, l'eros è associato alla libertà tanto che si potrebbe studiare una corrente del liberalismo sessuale tipicamente giapponese. Essa ebbe le sue origini nella cultura del periodo Edo (1600-1867) e nel mondo fluttuante (ukiyo) che fu la fucina degli intellettuali e della borghesia in opposizione al regime dominante. In quel periodo vi fu una corrispondenza fra potere economico e classe emergente, in parte favorita e in parte ostacolata dal potere politico shogunale. L'eredità di questa tradizione erotico-liberale si può ritrovare negli attuali artisti giapponesi come il fotografo Araki Nobuyoshi, l'illustratore Sorayama Hajime, e l'autrice di "ladies comics" Morizono Milk. Gli artisti giapponesi non hanno mai cessato di considerare la sessualità come una forza della natura talmente potente da sovvertire il fragile e artificiale ordine sociale.In conclusione si può affermare che l'autentica oscenità (etchi) è costituita dalla libertà di pensiero che come il desiderio erotico si accende, avviluppa e sviluppa senza porsi limiti.


Note

1. Martorella, Cristiano. Gioventù giapponese e letteratura come vita. Relazione al convegno "Magico come un libro". Biblioteca Internazionale per la Gioventù E. De Amicis, Genova, 15 novembre 2001.
2. Martorella, Cristiano. Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 1, gennaio-marzo 2003, pp. 67-71.
3. Gli articoli da citare potrebbero essere tantissimi, ma ci limitiamo ai più importanti: Pisu, Renata. Samurai robot, in "L'Espresso", anno XLVIII, n. 29, 18 luglio 2002, pp. 112-116; D'Emilia, Pio. Jap Mania, in "Marie Claire", anno I, n. 3, marzo 2003, pp. 304-314.
4. Weber, Max. 1945. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Sansoni, Firenze.
5. Importante in tal senso l'intervento di Marco Pellitteri sul tema della guerra nei fumetti, che ribadisce il valore pedagogico delle opere giapponesi. Cfr. Pellitteri, Marco. La follia della guerra narrata ai ragazzi. La storia nei fumetti, in "Il Pepeverde", n. 5, 2000, pp. 21-23.

domenica 1 giugno 2008

Il kawaii prima del kawaii

Ripropongo il mio paragrafo Il kawaii prima del kawaii pubblicato nel libro Anatomia di Pokémon. Può essere una lettura interessante per chi non ha avuto occasione di procurarsi il volume.

Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.


Il kawaii prima del kawaii
di Cristiano Martorella

Con il termine di cultura kawaii si indica il gusto e l’atteggiamento di una generazione di giovani giapponesi (la fascia d’età si sta allargando sempre più) che si riconoscono in una mancanza di ideologia e preferiscono rifugiarsi in un mondo infantile costituito da moine, atteggiamenti puerili, mode eclettiche e kitsch del vestiario, gadget, tendenze e linguaggi da bambino, cercando di ritardare sempre più la partecipazione al mondo adulto. La parola kawaii significa infatti "carino", ed acquista una connotazione particolare per indicare questo universo giovanile in continuo mutamento. Il fenomeno ha assunto importanza e attenzione quando i sociologi hanno cominciato a scriverne ampiamente, e a caratterizzare con il termine cultura kawaii fenomeni diversi che abbracciavano però una stessa tipologia di giovani. Probabilmente, il successo della definizione di cultura kawaii è attribuibile alla sociologa statunitense Merry White che ne fece un uso molto preciso in alcuni suoi scritti (cfr. Merry White, The Material Child. Coming of Age in Japan and America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1994).
Questo ideal-tipo è servito ad orientarsi abbastanza bene nel magmatico e sempre mutevole mondo giovanile giapponese, ma più spesso ha offerto problemi di carattere generale quando si cercava di comprendere il comportamento delle diverse generazioni di giapponesi considerate simultaneamente, e non forniva nessun tipo di spiegazione plausibile sulla società giapponese contemporanea complessiva. E ciò contribuiva a tenere separati gli studi antropologici sulla cultura dei consumi e dei mass-media dagli studi sociologici di carattere generale, creando un certo ritardo nella comprensione dei fenomeni ed etichettando come sub-cultura ciò che non rientrava nel modello più ampio e generale della società giapponese.
È possibile parlare del kawaii senza chiuderci in questa prospettiva, senza rinunciare a una spiegazione del fenomeno all’interno dell’intera cultura giapponese? Sicuramente un’analisi di questo genere deve tenere presente due livelli che fanno riferimento al kawaii: 1) sociologico 2) estetico. Infatti è soprattutto grazie al secondo, l’estetico, che viene costruita concretamente la cultura kawaii. Un’idea chiara del livello estetico permette una comprensione (verstehen secondo la terminologia weberiana che qui rispettiamo) delle relazioni e delle azioni dei singoli individui.
Premesso ciò, partiremo dal livello sociologico per mostrare le difficoltà che nascono senza un’opportuna conoscenza del funzionamento dell’aspetto estetico. Cercheremo di superare questa impasse grazie all’introduzione di una proposta di lettura del kawaii a livello estetico.
La cultura del kawaii viene generalmente inserita nel contesto più ampio del concetto di moratoria (in giapponese moratoriamu), ossia il rifiuto di crescere, di entrare a far parte del mondo adulto e il tentativo di cristallizzare l’età infantile a tempo indeterminato. Essa si manifesterebbe come un fenomeno di disimpegno sociale, di rigetto dei valori e dei ruoli sociali (compreso il gender), di rifugio nell’immagine di eterno bambino (cfr. Hoshino Katsumi, Shohi no jinruigaku, Toyo keizai shinposha, Tokyo,1984). Però ci sono alcuni punti di questo modello teorico che non rispondono alla realtà osservata, e c’è da sospettare che ci siano almeno degli aspetti trascurati.
Se la cultura del kawaii corrispondesse al concetto di moratoria, a una contestazione non ideologica al sistema di valori tradizionali della società giapponese, non si capirebbe perché dopo trent’anni di osservazione del fenomeno non si sono riscontrati sensibili cambiamenti nella società stessa. Le generazioni a cui si riferivano i primi studi sono ormai integrate, volenti o nolenti, nel mondo adulto. Ed esse stesse contribuiscono a sostenere e tramandare quei valori apparentemente contestati.
Si dovrebbe pensare che il sistema di valori della società giapponese è talmente forte da piegare ogni tipo di reazione? Ma per dimostrare qualcosa del genere si dovrebbe fare ricorso a spiegazioni aberranti (c’è chi ha provato a farlo, ma questo genere di spiegazioni lascia comunque molto insoddisfatti). Invece è molto più semplice inquadrare il problema in una prospettiva generale che è stata già studiata, quella del conflitto fra generazioni, e approfondire piuttosto l’analisi dei valori tramandati e contestati.
Quando gli studiosi del XIX secolo imbastirono i primi tentativi di teorie per spiegare questi fenomeni, trovarono un supporto molto utile nella raccolta sedimentata e razionalizzata di valori ed emozioni del mito greco. Ciò è talmente significativo che ancora oggi possiamo ricordare il mito di Crono per comprendere la dialettica del conflitto fra generazioni. Il padre di Crono era Urano, padrone dell’universo che per conservare il potere relegava i figli nel Tartaro, il regno degli inferi. Crono si ribellò e con una falce mutilò il padre. Ma egli stesso ebbe un comportamento identico, anzi ancora più brutale, divorando i figli. In pratica sostituì il suo stomaco al Tartaro. Con l’inganno si sottrasse a tale sorte il figlio Zeus che lo vinse e spodestò (cfr. Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998). In parole semplici, Crono non fece altro che uccidere il padre e sostituirsi a lui acquisendone lo stesso ruolo e i medesimi valori. Ciò ci permette di mettere in evidenza come il conflitto fra generazioni comporti l’interiorizzazione dei valori della generazione precedente in quella successiva. La dialettica padre-figlio è stata studiata anche da Georges Balandier che descrive puntualmente i meccanismi di riproduzione sociale, della dinamica dei gruppi, e della strutturazione della società (Georges Balandier, Società e dissenso, Dedalo, Bari, 1977). Questo non significa che le società restino immobili e prive di cambiamenti, ma soltanto che non bisogna farsi ingannare da un conflitto generazionale che è una tappa necessaria dell’organizzazione sociale. Le trasformazioni sociali, spesso grandi, avvengono e investono livelli diversi che riguardano direttamente le strutture sociali (si pensi al quadro descritto da Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974).
Queste premesse e osservazioni ci sono servite per respingere l’idea che la cultura kawaii sia una forma di contestazione che si oppone radicalmente alla cultura giapponese tout court. La nostra tesi sostiene invece che il kawaii non è altro che una interiorizzazione in forme estreme e singolari dei valori giapponesi tradizionali. Se dovessimo accettare la tesi che interpreta la cultura kawaii come antitetica alla cultura tradizionale giapponese, dovremmo paragonare i due sistemi e trovare delle differenze nette e sostanziali. In effetti, esiste un concetto che sembra rappresentare l’antitesi della cultura kawaii, si tratta della cultura del samurai. In tal senso siamo fortunati perché le opere sulla cosiddetta cultura del samurai sono abbondanti, a partire da Bushido, testo chiaro e fondamentale (Nitobe Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998, il testo originale risale però al 1900). Ma è proprio studiando la cultura tradizionale giapponese che non si riescono a trovare antitesi con la cultura kawaii, ma la contrario si scoprono le sue origini e se ne comprendono le motivazioni.
La cultura del samurai fonda la sua etica sull’integrità e l’onore del singolo individuo, tramite la disciplina zen che definisce gli aspetti della vita secondo una dottrina non finalistica e non salvifica. Questo non è un particolare irrilevante, poiché l’etica del samurai non ha nulla in comune con il concetto occidentale di morale. Essa è essenzialmente orientata al soggetto e indifferente. Adesso, riscontriamo che anche la cultura kawaii è orientata al soggetto e indifferente. Come sanno bene gli orientalisti, l’etica del samurai non è nemmeno una morale nel senso occidentale, ma piuttosto una forma estetizzante della vita (cfr. Joseph Campbell, Mitologia orientale, Mondadori, Milano, 1991). Lo stesso samurai paragonava la sua esistenza al fiore di ciliegio, bello ed effimero. E la produzione artistica è profondamente caratterizzata dall’attenzione e sensibilità per le facezie, le piccole cose quasi insignificanti, i particolari (cfr. Sei Shonagon, Note del guanciale, Mondadori, Milano, 1990).
Famosa è l’espressione mono no aware wo shiru (sentire il sentimento delle cose), una sorta di compenetrazione dell’animo nel mondo circostante. Ebbene, è lo stesso principio che permette nella cultura kawaii di far assurgere a massimo valore un gadget, un nastro o qualsiasi altro oggetto futile che viene investito con una connotazione emotiva.
A questo punto siamo arrivati al livello estetico. Chiunque voglia tentare di spiegare l’estetica giapponese deve partire dall’opera ormai fondamentale di Kuki sul sentimento giapponese del grazioso (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Un’analisi accurata ci permette di definire il kawaii come una mutazione, uno spostamento dell’iki (grazia) rispetto alle coordinate fissate da Kuki. Questo non significa che il kawaii non sia in relazione con i sentimenti del bello tradizionali dei giapponesi, anzi ne individua le origini e ne spiega il funzionamento. Tenendo presente lo studio di Kuki, riconosciamo che il kawaii ha in comune con l’iki alcuni punti. Ad esempio, una specie di liberazione (gedatsu) dalla convenzione attraverso il piacere e un’anima disponibile al cambiamento. Rispetto all’iki, c’è uno spostamento verso la vistosità (hade) e soprattutto una vicinanza alla dolcezza (amami), ma come l’iki conserva una relazione con la distinzione (johin). Sembrerebbe che le ultime tendenze delle ragazze di Tokyo confermino questo modello. Infatti è emerso un nuovo gruppo della cultura kawaii che si definisce ego-make. Caratteristica del kawaii sarebbe appunto la ricerca di questa distinzione, dell’essere diversi (e non contro qualcosa o qualcuno).
In conclusione, sembrerebbe che il quadro sia ormai completo. Ma un ultimo caso, abbastanza importante, può essere fornito per concludere questa rilettura della cultura kawaii. Si tratta del teatro Takarazuka (una sua descrizione ci è fornita da Renata Pisu, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001).
Il Takarazuka è la forma più esplicita della cultura kawaii eppure le sue origini risalgono al 1916 circa. In quell’anno l’imprenditore Kobayashi Ichizo decise di fondare un teatro composto da sole ragazze (rigorosamente vergini, pena l’espulsione) per aumentare l’attrattiva di una piccola cittadina, Takarazuka nella prefettura di Hyogo, poco distante da Osaka. Oggi Takarazuka è diventata un monumento vivente della cultura kawaii caratterizzata da questo concetto estremo di femminilità e innocenza infantile. Il teatro Takarazuka è anche il simbolo, con le sue attrici (adorate soprattutto da un pubblico femminile), di un modello estetico androgino, una indifferenza al gender in nome di un ideale estetico superiore. E questo non dovrebbe meravigliarci considerando l’insistenza sull’identificazione dell’etica giapponese in una forma di estetica onnicomprensiva.
In conclusione, il kawaii non è affatto una sub-cultura, ma una parte integrata e fondamentale della cultura giapponese senza la quale non sarebbe concepibile e costruibile la complessità di quel sistema di valori. Le stesse attrici del Takarazuka ci ricordano quanto il loro essere diverse (johin, distintive) sia una qualità apprezzata che permette di integrarsi perfettamente. Infatti, dopo la breve carriera (l’età è fondamentale) ricevono richieste di matrimonio da importanti personaggi. L’attrice del Takarazuka, così come una volta la geisha, viene considerata una sposa ideale perché conoscitrice delle arti tradizionali (ikebana e chado) e della disciplina. Si tratta quindi di una prospettiva ben diversa che ci faceva immaginare la cultura kawaii come marginale e in opposizione alla società. Anche le altre aidoru, ma anche le ragazze più semplici (come le commesse di importanti locali, chiamate karisuma, carisma, che dettano le tendenze), sono una realtà propositiva e altamente produttiva. Una società consumistica e altamente sviluppata sotto il profilo tecnologico come quella giapponese, ha bisogno delle risorse della cultura kawaii per promuovere e incentivare lo sviluppo spasmodico del sistema.
Piaccia o non piaccia, la cultura kawaii è altamente integrata nella società giapponese ed è all’origine della produzione creativa che ha permesso lo sviluppo di una società che ha conosciuto un benessere come nessun’altra per trent’anni ininterrotti. Se quel ciclo sta conoscendo attualmente un rallentamento, è da auspicare, come indicato dall’economista Ohmae Kenichi (Omae Ken'ichi) , che si trovino le risorse creative e l’entusiasmo nelle nuove generazioni, le stesse che sono portatrici della cultura kawaii (cfr. Ohmae Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, pp.350-351).


Paragrafo del libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.