Ripropongo il mio articolo Karisuma pubblicato dal sito Nipponico.com.
Karisuma. Le ragazze carismatiche del business
di Cristiano Martorella
20 agosto 2003. Con il termine karisuma (carisma) si indicano le commesse dei negozi alla moda che dettano le tendenze consigliano e influenzando le clienti. Il termine "commesse" è limitativo, infatti le karisuma sono anche modelle fungendo da indossatrici per il vestiario e gli accessori, e dotate di discrete capacità artistiche intrattengono la clientela danzando. Inoltre forniscono un servizio di consulenza dettagliato introducendo il cliente alla scoperta delle mode più trendy e spiegando a loro modo le novità. Insomma, si potrebbero definire delle professioniste del look globale che non si fermano alla consueta commercializzazione dei prodotti, ma integrano spettacolo, servizi, informazioni e pubblicità.
Il termine giapponese karisuma è un gairaigo (parola d’origine straniera) preso dall’inglese carisma, a sua volta dal tardo latino carisma e adattamento del greco kharisma derivato di kharis (grazia). In conclusione l’origine etimologica indica qualcosa che affascina.
Il primo in Italia a scrivere delle ragazza karisuma fu Leonardo Martinelli che in un articolo (1) molto dettagliato fornì una descrizione che spesso rompeva con i consueti stereotipi della gioventù giapponese. Infatti, l’intervista con Usuki Kunie del centro Design-Festa! di Harajuku forniva un’osservazione realistica e disincantata delle mode giovanili nipponiche.
"Siamo a Harajuku, a breve distanza da Shibuya. […] Qui sono state scattate alcune delle foto dell’ormai storico catalogo Benetton curato da Oliviero Toscani sui giovani di Tokyo. «L’ho visto», sottolinea la signora [Usuki]. «Le foto sono interessanti, ma danno un’immagine superficiale della Tokyo giovane. Gli europei, sfogliandolo, vedono i look aggressivi e stravaganti di tanti ragazzi e credono forse a una generazione ribelle. E invece non è vero: è solo un look e per di più temporaneo. Passerà qualche anno e diventeranno persone "normali" come gli altri.» […]" (2)
Riguardo alle karisuma, Leonardo Martinelli rilevava lo sforzo di creare uno stile personale detto ego-make capace di adattarsi al singolo individuo caratterizzandolo. Perciò uno stile non ripetitivo ma creativo. Quindi le karisuma non sono solo commesse, piuttosto sono stiliste capaci di fiutare le tendenze e gli umori anticipando le mode. Una rincorsa alla personalizzazione dell’abbigliamento.
Per quanto ci riguarda, possiamo aggiungere un’analisi sociologica delle karisuma nel quadro dei nostri studi sulla cultura giovanile giapponese. Intendiamo perciò mettere in evidenza tre aspetti: 1) il legame fra cultura e commercio; 2) il concetto estetico di grazia; 3) l’organizzazione del lavoro. Questi tre aspetti sono subordinati allo sviluppo della società dei servizi e dell’informazione che in Giappone sta vedendo il superamento del modello capitalistico fondato sulla proprietà materiale dei mezzi di produzione. Si tratta di un superamento che nella sua transizione è percepito come crisi economica. Il processo di trasformazione del lavoro comporta una elaborazione intellettuale costituita dai servizi come appunto le creazioni della moda (fashion). Gli stilisti non vendono vestiti ma sogni da indossare. Qui si interseca l’aspettativa emotiva, fondata culturalmente da una condivisione sociale, con il commercio. La misurazione del valore dei beni non si può più fondare sul lavoro, metro del sistema industriale, ma viene sostituito da un valore globale fissato dal sistema sociale fortemente influenzato dai mezzi di comunicazione. Se già in passato commercio e cultura erano strettamente legati, adesso sono fusi in un’unica identità. Non si vendono soltanto merci ma idee e creazioni. L’economia diviene cultural-dipendente, ossia estremamente collegata alla cultura. Nel XXI secolo, a dispetto delle teorie sulla globalizzazione, è la diversificazione e il pluralismo a garantire il successo commerciale. Le karisuma sono così le profetesse dell’economia culturale di questo secolo.
Piuttosto che leggere questi cambiamenti con le categorie aberranti della storiografia di Michel Foucault che vedrebbero l’uomo moderno asservito in un sistema sociale autoritario e liberticida (3), bisogna considerare come l’uomo fuori dalla società perda il senso della sua identità. La società, oltre a imporre delle regole, permette all’uomo di trovare i mezzi di espressione e sussistenza che favoriscono la sua realizzazione come persona. La società stessa è lo spazio vitale dove l’uomo si esprime. Secondo Foucault il concetto di uomo è un’invenzione recente che appartiene alla società moderna. Ma riportare continuamente l’individuo alle determinazioni sociali eliminando la singolarità e descrivendolo tramite negazioni e opposizioni significa ignorare la natura irriducibile dell’individuo. Ciò non è corretto in un ambito sociologico obiettivo che consideri l’individuo come un protagonista e non come una vittima impotente del sistema sociale. Perciò le interpretazioni della cultura giovanile che si rifanno a Foucault peccano di un pericoloso riduzionismo presentando un quadro aberrante della società nipponica considerata come oppressiva, costrittiva e autoritaria (4).
Le karisuma non sarebbero perciò dei soldatini delle aziende asservite al sistema, piuttosto persone capaci di trovare nuove risorse per il commercio proponendo qualcosa che nasce dalla loro fantasia. A ciò si aggiunge l’influenza del concetto giapponese di grazia (iki) già analizzato dal filosofo Kuki Shuzo. Egli ritiene che l’essere grazioso sia un modo di vivere (ikikata) peculiare dei giapponesi.
"L’iki […] è seduzione che ad opera del destino ha raggiunto la «rinuncia» e vive (ikiru) nella libertà dell’«energia spirituale». Ma solo quella nazione che serbi uno sguardo lucido sul destino e sia animata da una struggente aspirazione alla libertà spirituale può far assumere alla seduzione il modo iki" (5)
L’iki è seduzione, spirito vitale e distacco. Queste stesse caratteristiche si ritrovano nell’ideale di graziosità contemporaneo che molti autori hanno chiamato "ideologia kawaii". Le karisuma riprendono infatti questi elementi. Esse sono vitali sprizzando energia, mostrano distacco senza attaccarsi a uno stile preciso ma modulando una fusione di gusti, esprimono fascino e seduzione con un pizzico di erotismo. Ma l’interpretazione della cosiddetta cultura kawaii, di cui le karisuma sono protagoniste, ha peccato di superficialità descrivendo la cultura giovanile come un movimento ribelle e contestatario. Ciò è assolutamente fuorviante e costituisce una banalizzazione che mostra l’imprecisione di alcuni studiosi nel condurre le loro ricerche. Ciò che è diverso non è necessariamente opposto e contrario a qualcosa. Ciò che è diverso non è perciò "perverso".
Le karisuma fanno parte del sistema commerciale giapponese, non sono però da considerare asservite e succubi dell’organizzazione lavorativa. In realtà stanno contribuendo, anche se inconsapevolmente, alla costruzione di un’alternativa economica creando esse stesse una nuova fruizione dei beni e dei servizi (6).
Note
1. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001, pp.50-78.
2. Ibidem, pp.61-65.
3. Franco Crespi ha puntualmente criticato Michel Foucault per i suoi eccessi. Cfr. Crespi, Franco, Foucault o il rifiuto della determinazione, in "Aut Aut", n.170/171, 1979, pp.104-108. Fra le numerose opere di Michel Foucault si veda: Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977; La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978.
4. Un’analisi seria del potere politico e dei rapporti con i media è stata condotta da Marco Del Bene. Cfr. Del Bene, Marco, Società, potere e mezzi di comunicazione di massa in Giappone, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002. Il Giappone ha conosciuto le vessazioni del bieco militarismo del Novecento, così come altri paesi hanno subito le angherie del totalitarismo fascista e comunista. Però questo periodo storico non può essere esteso a tutta la società e a ogni epoca.
5. Cfr. Kuki, Shuzo, La struttura dell’iki. Adelphi, Milano, 1992, pp.134-135.
6. Vorremmo ricordare, prima di concludere, come siamo stati fra i primi in Italia a segnalare e discutere la novità costituita dalle mode giapponesi. Cfr. Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n.3, ottobre 1996.
Bibliografia
Del Bene, Marco, Società, potere e mezzi di comunicazione di massa in Giappone, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Hoshino, Katsumi e Okamoto, Keiichi e Inamasu, Tatsuo, Kigoka shakai no shoni, Horuto Saundasu Japan, Tokyo, 1985.
Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n.3, ottobre 1996.
Murakami, Ryu, Ano kane de nani ga kaeta ka. Bubble Fantasy. Shogakukan, Tokyo, 1999.
Ono, Yoshiyasu, Keiki to keizai seikaku, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Ravasio, Manuela, New Tokyo life style, in "Gulliver", n.3, anno X, marzo 2002.
Ueda, Atsushi. Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano, 1996.
venerdì 16 maggio 2008
giovedì 15 maggio 2008
Wakamono
Ripropongo il mio articolo Wakamono pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".
Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.
Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese
di Cristiano Martorella
Dopo alcuni interventi che hanno suscitato roventi polemiche, torniamo sull’argomento della cultura giovanile giapponese per occuparcene in modo più approfondito e dettagliato. A dispetto della presunta occidentalizzazione della gioventù nipponica, soltanto recentemente si è scoperto quanto siano originali e creativi i giovani giapponesi (wakamono significa appunto giovane). Invece di considerare il fenomeno per quello che realmente è, ossia la normale ricerca di un’identità da parte dei giovani, molti opinionisti e studiosi hanno cominciato a descrivere la cultura giovanile giapponese con termini inquietanti e appoggiandosi alla documentazione inattendibile della stampa scandalistica. L’immagine decadente della gioventù giapponese si diffuse così rapidamente, e senza controllo, da divenire un luogo comune anche della stampa che si definisce scientifica. Ed è questo un caso molto interessante da studiare, per capire i reali meccanismi dell’informazione mass-mediologica. Fra i tanti articoli italiani spicca in questo senso l’intervento di Michele Scozzai.
"Collezionano biancheria femminile usata […] e divorano fumetti manga, storie d’amore, di sesso e di violenza disegnate con eccezionale realismo. Comunicano via computer, si drogano di immagini (da quelle innocenti di Goldrake o Lupin III alla più spinta delle pellicole pornografiche) e delle quattro mura del piccolo monolocale dove vivono hanno fatto i confini del loro mondo. Eccoli gli otaku, un esercito di giapponesi stanchi, ribelli, figli del consumismo, maniaci di una cybercultura masturbatoria." [Michele Scozzai, La strana tribù del Giappone, in "Focus", n.95 settembre 2000, p.66]
La correlazione fra gioventù contemporanea giapponese e sesso, fumetti, masturbazione e prostituzione è ormai una costante in tutte le pubblicazioni, anche scientifiche, sull’argomento. Ma indagini sociologiche approfondite e serie che forniscano dati accertabili e metodi della ricerca non sono mai state pubblicate. E perfino in Giappone, le ipotesi di sociologi come Okonogi non sono andate oltre le supposizioni e le proposte di interpretazione dei fenomeni (cfr. Keigo Okonogi, Moratoriamu ningen no jidai, Chuo Koron Sha, Tokyo 1981). Al contrario, c’è stato chi ha puntato l’attenzione sulla crescente disinformazione intorno al Giappone contemporaneo.
"Negli ultimi anni il Giappone è tornato a stupire il mondo occidentale, ma questa volta dando l’impressione, ormai generalizzata, di un paese in forte crisi, non solo economica, ma di identità. Confermando, secondo alcuni, le tesi che vedevano nel Giappone un paese solo apparentemente potente, ma essenzialmente fragile, e nei giapponesi un popolo senza più identità e motivazioni diffuse e credibili. Alcuni fatti calamitosi […] hanno contribuito a rafforzare l’idea di un Giappone fragile, e nello stesso tempo di un luogo inquietante, una sorta di laboratorio della postmodernità e delle sue crepe. A fronte di queste premesse, emergeva con chiarezza, affrontando l’oggetto "otaku", di valutare il peso e l’influenza, sulla nostra indagine, di queste immagini distorte, immagini e suggestioni di cui non potremo in ogni caso liberarci fino a quando non avremo, per il Giappone, un interesse eterodiretto." [Massimiliano Griner e Rosa Isabella Fùrnari, Otaku. I giovani perduti del Sol Levante, Roma, Castelvecchi, 1999, p.17]
Le parole giuste e corrette di Griner e Fùrnari non hanno però avuto ascolto. Così sono continuati i resoconti pittoreschi che fornivano immagini sempre più distorte della gioventù giapponese. L’argomento coinvolgeva testate giornalistiche importanti e di ampia diffusione. Il caso interessava perfino la rivista "L’Espresso" che vi dedicava un reportage ovviamente con i consueti toni catastrofici.
"E' un problema che sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti, al punto che un istituto di ricerche fra i più quotati, su incarico del governo, ha svolto un’indagine approfondita sull’estensione e sulle probabili cause del fenomeno che, in giapponese, si chiama "hikikomori" e che significa "ritiro". Ne risulta che sul milione di giovani che hanno scelto la reclusione, l’80 per cento sono maschi, che il 41 per cento trascorre in isolamento assoluto o parziale - rifiutando, per esempio, di parlare o di aver qualsiasi contatto sociale - un periodo che va dai sei mesi ai dieci anni e più, che alcuni (ma non è stata accertata la percentuale) soffrono di depressione, di agorafobia e di schizofrenia, mentre altri, forse la maggioranza, non presentano nessun sintomo evidente di disturbi neurologici o psichiatrici. Quanto alle cause del "hikikomori", si avanzano spiegazioni sociologiche e psicologiche di ogni genere, ma mai, concordano gli esperti, si sarebbe immaginato che il complesso di Peter Pan, largamente diffuso negli anni Ottanta, e che si manifestava con il rifiuto degli adolescenti di diventare adulti, si sarebbe evoluto fino ad assumere questa forma estrema di auto-reclusione." [Renata Pisu, Samurai robot, in "L’Espresso, n.29 anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.115]
Si può osservare come non venga fornito alcun nome circa l’istituto di ricerche, gli studiosi e gli psicologi che avrebbero condotto questo studio, rendendo praticamente privo di valore scientifico e di credibilità l’articolo e i dati presentati. Se non è possibile una verifica delle fonti, viene vanificata ogni correttezza e precisione delle ricerche. Ma l’interesse della giornalista era rivolto a colpire il lettore con un’immagine impressionante della gioventù giapponese. E basta poco per trovare le presunte cause della degenerazione della gioventù: l’eccessivo sviluppo tecnologico.
"In Giappone è opinione diffusa che se non ci fossero a disposizione tutti questi marchingegni, i ragazzi non se ne starebbero rinchiusi da soli, cullandosi nella convinzione che la loro interfaccia è l’universo intero, che la tecnologia è il loro autentico sistema nervoso al quale sono collegati mediante un complesso di apparati. Secondo la maggior parte degli psicologi che si interrogano - assieme a sociologi e cibernetici - sulle cause del "hikikomori", si è andata creando una simbiosi totale tra corpo e meccanismi elettronici che ha portato a una forma inedita di autismo: l’autismo tecnologico." [Ibidem]
Non è affatto vero che in Giappone sarebbe diffusa l’opinione che la tecnologia travierebbe i giovani. Soltanto qualche esaltato luddista può sostenere che la macchina minaccia l’uomo. Piuttosto è la perdita del senso della vita umana che rende distorto il rapporto con la tecnologia, così come indicava Martin Heidegger (cfr. Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976). Gli studiosi giapponesi ritengono invece che la cultura nipponica abbia assunto la tecnologia occidentale adattandola alla propria storia e tradizione. Questa è la posizione assunta anche da Atsushi Ueda che ribadisce l’importanza della specificità culturale giapponese (cfr. Atsushi Ueda, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano1996). L’interpretazione dell’impatto della tecnologia sulle giovani generazioni giapponesi non è affatto univoca come vorrebbero farci credere i giornalisti. L’economista Ken’ichi Omae suggerisce le possibilità di queste nuove generazioni all’interno di un’economia liberista (il modello economico che si è affermato a livello planetario).
"La generazione di "Shonen Jump", che oggi è tra i trenta e i quaranta anni, è fondamentalmente diversa da qualsiasi generazione precedente ("Shonen Jump" vendeva 6 milioni di copie alla settimana. Questa generazione è nota per la sua incapacità di pensare con la stessa logicità e consequenzialità della generazione immediatamente precedente: idee e pensieri saltano da una scena all’altra, senza transizioni, come succede ai giovani occidentali cresciuti davanti a MTV). È una generazione etichettata come "più debole". Si dice che coloro che ne fanno parte non abbiano la stessa resistenza delle generazioni precedenti, non avendo dovuto attraversare le stesse difficoltà dei genitori e dei nonni. E non hanno neanche la stessa fantasia e la stessa motivazione della generazione successiva, quella dei "ragazzi Nintendo". Sono una generazione perduta, e incarnano uno dei motivi alla base del ristagno dell’economia giapponese, rappresentando la porzione più consistente della popolazione attiva. Al contrario i "ragazzi Nintendo" della generazione successiva, oggi tra i venti e trent’anni, hanno molte più speranze. I giochi di ruolo (in sigla RPG) con cui sono cresciuti li hanno plasmati in modo inconfondibile. Tentano tutte le strade possibili; sono flessibili e molto più creativi di qualsiasi generazione precedente. Il loro problema è uno solo: quando si trovano in difficoltà reagiscono come se la vita fosse un gioco elettronico, cioè premendo il tasto "Reset". Cercano un nuovo lavoro, una nuova città, una nuova carriera. "Fine partita. Ricomincia". Sono pieni di immaginazione ed entusiasmo per il tipo di azione in cui "si spara senza mirare". E proprio queste apparenti carenze li rendono molto più efficaci, come cittadini del nuovo continente." [Kenichi Ohmae (Ken'ichi Omae), Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma 2001, pp.350-351]
A questo punto risulta interessante fare un passo indietro e chiedersi il perché di tanta attenzione nei confronti della gioventù giapponese da parte della stampa italiana. Soprattutto è sorprendente la rappresentazione pittoresca dei caratteri mostruosi. Ed è questa mostruosità, che potremmo definire con il termine freak, a colpire l’immaginazione. Il mostro, il diverso è il tema che emerge prepotentemente.
Ma questo topos che i romantici avevano ben studiato (si pensi alla creatura di Mary Shelley e al gobbo di Victor Hugo) ha aspetti più profondi di quelli maldestramente evidenziati dai giornalisti. I romantici ci hanno insegnato che siamo noi a creare i mostri, a isolarli rendendoli asociali, separati e diversi. Autori come Edogawa Ranpo hanno messo in luce in quale modo il mostro tragga la sua forza da una società borghese corrotta (con altri toni vi era riuscito anche Luigi Pirandello). I mostri sono indispensabili in una società razionalizzante e burocratica che occulta continuamente la vera natura umana. Il mostro è il condensato di tutto ciò che è incomprensibile, istintivo, vitale e soprattutto libero. Il mostro soffre nell’isolamento in cui è gettato dal consorzio umano che stabilisce a priori i ruoli e le mansioni degli individui. E non può far altro che esprimere la sua identità e diversità tramite la distruzione della società che l’ha condannato. In ogni caso il mostro sarà sempre vincente perché avrà affermato la sua identità al di sopra dell’omologazione comunitaria.
Per quanto riguarda la gioventù giapponese, è completamente mancata un’indagine sociologica seria che valutasse e ponderasse le istanze dei giovani. Non si è andati oltre la pittoresca descrizione della mostruosità presunta. Paradossalmente i manga ritraggono la realtà giovanile giapponese meglio dei malsani saggi sociologici che si stanno pubblicando. L’unico modo per comprendere le kawaikochan (le graziose ragazze giapponesi) è avvicinarsi ai loro sentimenti, e i manga sono capaci di ciò, molto meglio delle fredde tassonomie e delle false ricostruzioni storiche. Ricordiamoci cosa ci accomuna tutti, noi e i giapponesi: siamo esseri umani. I desideri, le aspirazioni, le speranze e le illusioni fanno parte del nostro animo. Sono i sentimenti che motivano i comportamenti umani, e non certo le dogmatiche e schematiche definizioni di una supposta economia dello scambio. Le kawaikochan sono mosse da desideri che, seppure nella loro ingenuità, hanno dignità e ragione di rispetto. L’amicizia come valore, il piacere come arricchimento delle esperienze, il dolore come conoscenza della realtà, la consapevolezza di poter sbagliare e illudersi. Se ci fossimo fermati a riflettere sulle emozioni delle kawaikochan avremmo veramente compreso il loro mondo invece di fornire una banale rappresentazione viziata da un cumulo di assurdi stereotipi.
Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.
Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.
Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese
di Cristiano Martorella
Dopo alcuni interventi che hanno suscitato roventi polemiche, torniamo sull’argomento della cultura giovanile giapponese per occuparcene in modo più approfondito e dettagliato. A dispetto della presunta occidentalizzazione della gioventù nipponica, soltanto recentemente si è scoperto quanto siano originali e creativi i giovani giapponesi (wakamono significa appunto giovane). Invece di considerare il fenomeno per quello che realmente è, ossia la normale ricerca di un’identità da parte dei giovani, molti opinionisti e studiosi hanno cominciato a descrivere la cultura giovanile giapponese con termini inquietanti e appoggiandosi alla documentazione inattendibile della stampa scandalistica. L’immagine decadente della gioventù giapponese si diffuse così rapidamente, e senza controllo, da divenire un luogo comune anche della stampa che si definisce scientifica. Ed è questo un caso molto interessante da studiare, per capire i reali meccanismi dell’informazione mass-mediologica. Fra i tanti articoli italiani spicca in questo senso l’intervento di Michele Scozzai.
"Collezionano biancheria femminile usata […] e divorano fumetti manga, storie d’amore, di sesso e di violenza disegnate con eccezionale realismo. Comunicano via computer, si drogano di immagini (da quelle innocenti di Goldrake o Lupin III alla più spinta delle pellicole pornografiche) e delle quattro mura del piccolo monolocale dove vivono hanno fatto i confini del loro mondo. Eccoli gli otaku, un esercito di giapponesi stanchi, ribelli, figli del consumismo, maniaci di una cybercultura masturbatoria." [Michele Scozzai, La strana tribù del Giappone, in "Focus", n.95 settembre 2000, p.66]
La correlazione fra gioventù contemporanea giapponese e sesso, fumetti, masturbazione e prostituzione è ormai una costante in tutte le pubblicazioni, anche scientifiche, sull’argomento. Ma indagini sociologiche approfondite e serie che forniscano dati accertabili e metodi della ricerca non sono mai state pubblicate. E perfino in Giappone, le ipotesi di sociologi come Okonogi non sono andate oltre le supposizioni e le proposte di interpretazione dei fenomeni (cfr. Keigo Okonogi, Moratoriamu ningen no jidai, Chuo Koron Sha, Tokyo 1981). Al contrario, c’è stato chi ha puntato l’attenzione sulla crescente disinformazione intorno al Giappone contemporaneo.
"Negli ultimi anni il Giappone è tornato a stupire il mondo occidentale, ma questa volta dando l’impressione, ormai generalizzata, di un paese in forte crisi, non solo economica, ma di identità. Confermando, secondo alcuni, le tesi che vedevano nel Giappone un paese solo apparentemente potente, ma essenzialmente fragile, e nei giapponesi un popolo senza più identità e motivazioni diffuse e credibili. Alcuni fatti calamitosi […] hanno contribuito a rafforzare l’idea di un Giappone fragile, e nello stesso tempo di un luogo inquietante, una sorta di laboratorio della postmodernità e delle sue crepe. A fronte di queste premesse, emergeva con chiarezza, affrontando l’oggetto "otaku", di valutare il peso e l’influenza, sulla nostra indagine, di queste immagini distorte, immagini e suggestioni di cui non potremo in ogni caso liberarci fino a quando non avremo, per il Giappone, un interesse eterodiretto." [Massimiliano Griner e Rosa Isabella Fùrnari, Otaku. I giovani perduti del Sol Levante, Roma, Castelvecchi, 1999, p.17]
Le parole giuste e corrette di Griner e Fùrnari non hanno però avuto ascolto. Così sono continuati i resoconti pittoreschi che fornivano immagini sempre più distorte della gioventù giapponese. L’argomento coinvolgeva testate giornalistiche importanti e di ampia diffusione. Il caso interessava perfino la rivista "L’Espresso" che vi dedicava un reportage ovviamente con i consueti toni catastrofici.
"E' un problema che sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti, al punto che un istituto di ricerche fra i più quotati, su incarico del governo, ha svolto un’indagine approfondita sull’estensione e sulle probabili cause del fenomeno che, in giapponese, si chiama "hikikomori" e che significa "ritiro". Ne risulta che sul milione di giovani che hanno scelto la reclusione, l’80 per cento sono maschi, che il 41 per cento trascorre in isolamento assoluto o parziale - rifiutando, per esempio, di parlare o di aver qualsiasi contatto sociale - un periodo che va dai sei mesi ai dieci anni e più, che alcuni (ma non è stata accertata la percentuale) soffrono di depressione, di agorafobia e di schizofrenia, mentre altri, forse la maggioranza, non presentano nessun sintomo evidente di disturbi neurologici o psichiatrici. Quanto alle cause del "hikikomori", si avanzano spiegazioni sociologiche e psicologiche di ogni genere, ma mai, concordano gli esperti, si sarebbe immaginato che il complesso di Peter Pan, largamente diffuso negli anni Ottanta, e che si manifestava con il rifiuto degli adolescenti di diventare adulti, si sarebbe evoluto fino ad assumere questa forma estrema di auto-reclusione." [Renata Pisu, Samurai robot, in "L’Espresso, n.29 anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.115]
Si può osservare come non venga fornito alcun nome circa l’istituto di ricerche, gli studiosi e gli psicologi che avrebbero condotto questo studio, rendendo praticamente privo di valore scientifico e di credibilità l’articolo e i dati presentati. Se non è possibile una verifica delle fonti, viene vanificata ogni correttezza e precisione delle ricerche. Ma l’interesse della giornalista era rivolto a colpire il lettore con un’immagine impressionante della gioventù giapponese. E basta poco per trovare le presunte cause della degenerazione della gioventù: l’eccessivo sviluppo tecnologico.
"In Giappone è opinione diffusa che se non ci fossero a disposizione tutti questi marchingegni, i ragazzi non se ne starebbero rinchiusi da soli, cullandosi nella convinzione che la loro interfaccia è l’universo intero, che la tecnologia è il loro autentico sistema nervoso al quale sono collegati mediante un complesso di apparati. Secondo la maggior parte degli psicologi che si interrogano - assieme a sociologi e cibernetici - sulle cause del "hikikomori", si è andata creando una simbiosi totale tra corpo e meccanismi elettronici che ha portato a una forma inedita di autismo: l’autismo tecnologico." [Ibidem]
Non è affatto vero che in Giappone sarebbe diffusa l’opinione che la tecnologia travierebbe i giovani. Soltanto qualche esaltato luddista può sostenere che la macchina minaccia l’uomo. Piuttosto è la perdita del senso della vita umana che rende distorto il rapporto con la tecnologia, così come indicava Martin Heidegger (cfr. Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976). Gli studiosi giapponesi ritengono invece che la cultura nipponica abbia assunto la tecnologia occidentale adattandola alla propria storia e tradizione. Questa è la posizione assunta anche da Atsushi Ueda che ribadisce l’importanza della specificità culturale giapponese (cfr. Atsushi Ueda, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Feltrinelli, Milano1996). L’interpretazione dell’impatto della tecnologia sulle giovani generazioni giapponesi non è affatto univoca come vorrebbero farci credere i giornalisti. L’economista Ken’ichi Omae suggerisce le possibilità di queste nuove generazioni all’interno di un’economia liberista (il modello economico che si è affermato a livello planetario).
"La generazione di "Shonen Jump", che oggi è tra i trenta e i quaranta anni, è fondamentalmente diversa da qualsiasi generazione precedente ("Shonen Jump" vendeva 6 milioni di copie alla settimana. Questa generazione è nota per la sua incapacità di pensare con la stessa logicità e consequenzialità della generazione immediatamente precedente: idee e pensieri saltano da una scena all’altra, senza transizioni, come succede ai giovani occidentali cresciuti davanti a MTV). È una generazione etichettata come "più debole". Si dice che coloro che ne fanno parte non abbiano la stessa resistenza delle generazioni precedenti, non avendo dovuto attraversare le stesse difficoltà dei genitori e dei nonni. E non hanno neanche la stessa fantasia e la stessa motivazione della generazione successiva, quella dei "ragazzi Nintendo". Sono una generazione perduta, e incarnano uno dei motivi alla base del ristagno dell’economia giapponese, rappresentando la porzione più consistente della popolazione attiva. Al contrario i "ragazzi Nintendo" della generazione successiva, oggi tra i venti e trent’anni, hanno molte più speranze. I giochi di ruolo (in sigla RPG) con cui sono cresciuti li hanno plasmati in modo inconfondibile. Tentano tutte le strade possibili; sono flessibili e molto più creativi di qualsiasi generazione precedente. Il loro problema è uno solo: quando si trovano in difficoltà reagiscono come se la vita fosse un gioco elettronico, cioè premendo il tasto "Reset". Cercano un nuovo lavoro, una nuova città, una nuova carriera. "Fine partita. Ricomincia". Sono pieni di immaginazione ed entusiasmo per il tipo di azione in cui "si spara senza mirare". E proprio queste apparenti carenze li rendono molto più efficaci, come cittadini del nuovo continente." [Kenichi Ohmae (Ken'ichi Omae), Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma 2001, pp.350-351]
A questo punto risulta interessante fare un passo indietro e chiedersi il perché di tanta attenzione nei confronti della gioventù giapponese da parte della stampa italiana. Soprattutto è sorprendente la rappresentazione pittoresca dei caratteri mostruosi. Ed è questa mostruosità, che potremmo definire con il termine freak, a colpire l’immaginazione. Il mostro, il diverso è il tema che emerge prepotentemente.
Ma questo topos che i romantici avevano ben studiato (si pensi alla creatura di Mary Shelley e al gobbo di Victor Hugo) ha aspetti più profondi di quelli maldestramente evidenziati dai giornalisti. I romantici ci hanno insegnato che siamo noi a creare i mostri, a isolarli rendendoli asociali, separati e diversi. Autori come Edogawa Ranpo hanno messo in luce in quale modo il mostro tragga la sua forza da una società borghese corrotta (con altri toni vi era riuscito anche Luigi Pirandello). I mostri sono indispensabili in una società razionalizzante e burocratica che occulta continuamente la vera natura umana. Il mostro è il condensato di tutto ciò che è incomprensibile, istintivo, vitale e soprattutto libero. Il mostro soffre nell’isolamento in cui è gettato dal consorzio umano che stabilisce a priori i ruoli e le mansioni degli individui. E non può far altro che esprimere la sua identità e diversità tramite la distruzione della società che l’ha condannato. In ogni caso il mostro sarà sempre vincente perché avrà affermato la sua identità al di sopra dell’omologazione comunitaria.
Per quanto riguarda la gioventù giapponese, è completamente mancata un’indagine sociologica seria che valutasse e ponderasse le istanze dei giovani. Non si è andati oltre la pittoresca descrizione della mostruosità presunta. Paradossalmente i manga ritraggono la realtà giovanile giapponese meglio dei malsani saggi sociologici che si stanno pubblicando. L’unico modo per comprendere le kawaikochan (le graziose ragazze giapponesi) è avvicinarsi ai loro sentimenti, e i manga sono capaci di ciò, molto meglio delle fredde tassonomie e delle false ricostruzioni storiche. Ricordiamoci cosa ci accomuna tutti, noi e i giapponesi: siamo esseri umani. I desideri, le aspirazioni, le speranze e le illusioni fanno parte del nostro animo. Sono i sentimenti che motivano i comportamenti umani, e non certo le dogmatiche e schematiche definizioni di una supposta economia dello scambio. Le kawaikochan sono mosse da desideri che, seppure nella loro ingenuità, hanno dignità e ragione di rispetto. L’amicizia come valore, il piacere come arricchimento delle esperienze, il dolore come conoscenza della realtà, la consapevolezza di poter sbagliare e illudersi. Se ci fossimo fermati a riflettere sulle emozioni delle kawaikochan avremmo veramente compreso il loro mondo invece di fornire una banale rappresentazione viziata da un cumulo di assurdi stereotipi.
Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003, pp.67-71.
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mercoledì 14 maggio 2008
Gothic Lolita
Mercoledì 20 giugno 2007, alle ore 21.00, sono stato intervistato da Andrea Materia e Mario Bellina, conduttori del programma "Versione Beta, in onda su Radio 2. L'argomento era il fenomeno culturale delle Gothic Lolita. Si è discusso dei temi trattati nel mio articolo sulle Gothic Lolita pubblicato dal sito Nipponico.com. Numerosi gli ospiti, o meglio, le ospiti che hanno fornito un quadro interessante della creatività femminile. Ripropongo il mio articolo sul tema qui di seguito.
Gothic Lolita
Le adolescenti fanno paura
di Cristiano Martorella
22 gennaio 2005. Con il termine Gothic Lolita, in giapponese Goshikku Rorita, si indica una tipologia di ragazze giapponesi alla moda che fanno tendenza con un abbigliamento neoromantico e un po’ kitsch. L’espressione è stata coniata usando vocaboli stranieri già esistenti, Gothic e Lolita (1), e uniti insieme per assumere un valore nuovo e indicare qualcosa in particolare appartenente alla cultura giovanile giapponese. Infatti le mode della gioventù giapponese sono tante ed è un divertimento crearne sempre nuove. Così è bello ciò che è vario. Esistono già diverse tipologie di ragazze giapponesi in cui si inseriscono le Gothic Lolita (Goshikku Rorita). Ci sono le kogal (kogyaru), termine generico con cui si indicano le ragazze con atteggiamento puerile e volutamente lezioso che trascorrono le giornate dedicandole al divertimento e allo shopping. Poi ci sono le trasgressive ganguro che esibiscono un’abbronzatura scurissima e un trucco contrastante chiaro e pesante. Mentre le ganjiro, anche dette shirogyaru, si mettono in mostra con una pelle chiarissima e un aspetto innocente che è più un vezzo piuttosto che un comportamento spontaneo. Tanto che fu in voga anche l’espressione burikko per indicare una ragazza che finge ingenuità. Viceversa le bodicon (abbreviazione e contrazione di body conscious) vestono in modo estremamente sexy e provocante. Le Gothic Lolita riprendono certi stilemi delle loro coetanee e ne amplificano alcuni aspetti. Sicuramente il contributo della cultura otaku è qui altissimo. Il riferimento ai personaggi dei manga e degli anime è esplicito. Un’autrice di manga che ha contribuito moltissimo a sostenere questa moda, tramite i personaggi da lei disegnati, è Yazawa Ai. L’abbigliamento originale di molte protagoniste dei suoi manga sono un buon modello per le Gothic Lolita. Nemmeno può essere dimenticato il gruppo delle Clamp, autrici di fumetti per ragazze (shojo manga) che tengono in grande considerazione l’abbigliamento e la moda. Inoltre non va dimenticata la produzione di manga hentai e di videogiochi bishoujo dove la figura della Lolita è onnipresente divenendo un’icona e un modello culturale. Basta ricordare il successo dei fumetti di U-Jin e Utatane Hiroyuki, e in tempi più recenti, il lavoro di Carnelian, autrice dell’anime e del bishoujo game intitolato Yami to boshi to hon no tabibito. Questo è il contributo fornito dalla cultura otaku che possiamo riscontrare. Quali sono però le vere intenzioni delle Gothic Lolita nascoste dietro il vestito e la maschera così costruita? In effetti la questione è complessa. Le Gothic Lolita non sono e non aspirano a divenire un gruppo rivoluzionario. La saggistica occidentale ha enfatizzato in modo eccessivo le mode e le tendenze della gioventù giapponese. Spesso, leggendo questi saggi, si ha l’impressione che la gioventù sia in lotta contro la cultura tradizionale giapponese. Vestirsi in una maniera vistosa e trasgressiva non significa necessariamente opporsi alla società e ai modelli culturali dominanti (2). Per fortuna giornalisti intelligenti come Leonardo Martinelli hanno messo in evidenza l’inconsistenza della contestazione dei giovani ribelli giapponesi (3). Ribelli solo nell’abbigliamento. Le Gothic Lolita non vogliono la rivoluzione, semplicemente vogliono divertirsi. Viceversa la cultura giovanile giapponese, anche negli aspetti commerciali della cultura pop, è tuttavia entrata involontariamente in collisione con le trasformazioni sociali del XXI secolo, alimentando uno scontro che in effetti non era cercato. In realtà la gioventù subisce un’aggressione di una tale intensità che ogni compromesso appare irrealizzabile. Il mondo e la cultura otaku sono diventati un movimento eversivo, oppure appaiono così, a causa della fortissima repressione operata sui giovani dalle istituzioni e dal mercato del lavoro imposto a discapito dei diritti civili. Paradossalmente le democrazie attuali tutelano il libero mercato ma non difendono la libertà dei cittadini eliminando le regole che proteggono i lavoratori (questo processo è generalmente chiamato deregulation). Come nel resto del mondo, anche in Giappone la situazione del mercato del lavoro è gravissima. La situazione è peggiorata anche a causa dell’occultamento della realtà operato dai mass media e dalle istituzioni che preferiscono incolpare fumetti e videogiochi del disagio sociale esistente. Si è addirittura inventata la sindrome dell’hikikomori (segregato), amplificando i vecchi studi sulle devianze degli otaku, per dare un’apparenza di scientificità alle vecchie opinioni sulla degenerazione della cultura giovanile. Si può dire però, senza difficoltà alcuna, che la questione hikikomori è stata semplicemente escogitata dai media e dalle istituzioni per indicare nei giovani le colpe da imputare agli adulti. Dalle ricerche che abbiamo condotto sul campo, pubblicate in libri e articoli, è emerso che il lavoro precario (freeter, in giapponese furitaa), introdotto anche in Giappone, è l’autentico responsabile dei disagi sociali che invece si imputano ad anime e manga, videogiochi e internet. La dimostrazione di quanto affermato è nell'inesistenza di studi sulla fruizione dei media in Giappone. Nessuno ha mai studiato la camera di un adolescente, nessuno ha mai condotto ricerche sulla vita degli adolescenti. Tutti invece hanno scritto che gli adolescenti si chiudevano in una stanza per dedicarsi ai loro hobby trascurando la vita sociale. Ebbene, tutte queste affermazioni si basano sul vuoto totale, una completa mancanza di ricerche. Nessuno ha mai condotto ricerche sulla fruizione dei media in Giappone, tutti invece hanno scritto e condannato un mondo paranoico che esisteva soltanto nelle loro teste. Ancora in molti credono che da qualche parte esistano dei libri che descrivono e studiano la fruizione dei media e la vita dei giovani giapponesi. Ricerche approfondite non esistono, non sono mai state condotte perché quello che interessava era inventarsi delle giustificazioni per il degrado sociale in cui sono state gettate le nuove generazioni private dell'assistenza e dei benefici di cui godevano le vecchie generazioni. Sulla psicopatia dei media, definita come sindrome di hikikomori (segregato), la rivista "Psicologia contemporanea" ha dedicato un’inchiesta (4). L’articolo è imbarazzante e approssimativo. Ci si è limitati a ripetere opinioni e luoghi comuni raccolti in internet, e a citare un film. Ma i personaggi dei film non sono persone reali. Invece di condurre ricerche sul campo e osservazioni su persone reali ci si è soffermati a un film, alla fiction che è per definizione una finzione. Ritorniamo però alla definizione di hikikomori. L’hikikomori sarebbe una persona che si chiude in camera per dedicarsi ai videogiochi e alla navigazione in internet troncando le relazioni sociali con gli altri. Questa definizione è già sbagliata e contraddittoria. Infatti i mezzi di comunicazione usati dagli hikikomori aumentano le possibilità di comunicazione invece di diminuirle. Inoltre non si forniscono spiegazioni plausibili sulle cause delle interruzioni di certe relazioni interpersonali. Il sospetto è che i media non siano una causa della patologia, piuttosto un mezzo su cui si concentrano le accuse per distrarre dai veri problemi. Ancora più paradossale è il fatto che i media incolpano se stessi per un fenomeno complesso e incomprensibile, come se soffrissero di una sindrome di onnipotenza. Forse è questa l’autentica psicopatologia: credere che la realtà sia soltanto quella sotto l’obiettivo della telecamera. In questo caso la malattia assume aspetti molto più estesi e articolati. Non si tratta di un fenomeno ristretto ai giovani giapponesi. Anche le Gothic Lolita possono sembrare strane, con il loro atteggiamento inquietante che esibisce ingenuità e disinibizione sessuale, non smettono di suscitare perplessità. Così l’idea sbagliata che considera una generazione di giovani come sbandati e asociali ritorna prepotentemente. Intanto lo stile delle Gothic Lolita fa proseliti. La cantante Gwen Stefani con il videoclip "What you waiting for?" furoreggiava alla fine del 2004. Nel videoclip c’erano ragazze giapponesi in stile tipicamente Gothic Lolita, e la parodia di Alice nel paese delle meraviglie era un forte riferimento alla cultura kawaii. Nel frattempo accade anche qualcosa di inaspettato. Le ragazze giapponesi sono cresciute e hanno incominciato a esprimere le loro opinioni denunciando le storture della società degli adulti. La situazione è ribaltata, così sono gli adulti messi sotto accusa. In questo senso, due casi clamorosi sono stati i libri di Kanehara Hitomi e Iijima Ai. Kanehara Hitomi ha vinto il Premio Akutagawa con il libro Hebi ni piasu (Piercing al serpente) che ha ottenuto un grande successo fra il lettori (5). Kanehara Hitomi ha scandalizzato quanto incantato per l’audacia dei temi trattati, rivedendo i concetti di corpo, personalità e relazione umana. Ella, come tanti giovani giapponesi, è insofferente nei confronti dei soliti cliché che costringono la vita in uno stampino predefinito. I giovani stanno cercando di stabilire rapporti umani più profondi, anche a costo di essere estremi e anticonformisti, e sono pure disposti a rischiare, magari fallire. In fondo nella cultura giapponese, come ci ricorda Ivan Morris (6), la vera sconfitta non è la perdita sul campo di battaglia ma la rinuncia a combattere. Questa è un’autentica affermazione di valori, nuovi valori. Non è nemmeno detto che siano in opposizione ai valori tradizionali giapponesi, come abbiamo appena visto. Siamo ben lontani dal vuoto di valori paventato dagli psicologi frettolosi. Iijima Ai, celebre conduttrice televisiva, ha scandalizzato con la sua autobiografia intitolata Platonic Sex (7). Ella individua le questioni cruciali e scottanti dei rapporti fra giovani e adulti, denunciando i soprusi e tutte le forme di sfruttamento a cui sono sottoposte le nuove generazioni. In nome dell’educazione si subisce ogni tipo di sopruso, si patiscono le violenze di continui e assurdi divieti. Così si finisce per trasgredire cercando di affermare la propria esistenza al di sopra delle proibizioni che non considerano la complessità dell’esistenza umana. Ciò che sorprende è la forza morale sprigionata da Iijima Ai con tanta semplicità e ingenuità. Mai vittimismo nonostante l’evidenza delle ingiustizie. Soltanto coraggio e voglia di affrontare la vita. Ecco perché Platonic Sex è un best-seller adorato da milioni di adolescenti, e resta purtroppo ancora incompreso dagli adulti.
Questi sono soltanto due esempi di un mondo che sta emergendo. Le ragazze giapponesi hanno sempre più voglia di far sentire le proprie idee e si esprimono attraverso tutti i mezzi della società contemporanea: la moda, la televisione, la stampa, i fumetti, internet e i videogiochi.
Un aspetto delle vicende della gioventù giapponese che colpisce lo studioso più di ogni cosa, è lo stato disastroso e lacunoso della ricerca scientifica. La sociologia è una scienza che dovrebbe comprendere l’agire umano nelle sue motivazioni (8). Invece assistiamo a manifestazioni palesi di dilettantismo e superficialità. Si usano ancora le categorie obsolete della devianza giovanile per spiegare fenomeni molto più complessi e articolati. Il rischio è che l’incomprensione si possa poi tramutare in scontro. Allora controllare le trasgressive Gothic Lolita non sarebbe affatto semplice.
Note
1. Lolita è il celebre personaggio dell’omonimo romanzo scandaloso e pruriginoso di Vladimir Nabokov, trasposto in film nel 1962 dal regista Stanley Kubrick. Il romanzo Lolita del 1955 è stato riportato al successo da un’iniziativa del quotidiano "La Repubblica" che lo accludeva al giornale nell’ultima settimana del mese di maggio 2002. Lolita è il ventesimo volume della collana "La biblioteca di Repubblica".
2. Abbiamo duramente contestato le tesi contenute nel volume La bambola e il robottone, senza però ottenere risposte plausibili, al contrario ricevendo soltanto accuse inconsistenti e non attinenti alle nostre critiche. Comunque, chiunque può leggere il libro e constatare quante esagerazioni contiene. Cfr. Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001. Infine, bisogna ricordare che una solenne stroncatura de La bambola e il robottone è stata pubblicata dalla rivista "LG Argomenti". Si evidenziava così che lo studio della società di massa non può avvenire separatamente dallo studio della società in tutti i suoi aspetti istituzionali, economici e relazionali. Cfr. Martorella, Cristiano, Scaffale/Saggi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.70-71.
3. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001, pp.50-78.
4. Cfr. Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori. Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003, pp.18-25.
5. Cfr. Kanehara, Hitomi, Hebi ni piasu, Shueisha, Tokyo, 2004. La traduzione inglese del titolo è un po’ differente essendo Snakes and Earrings (Serpenti e orecchini).
6. Cfr. Morris, Ivan, La nobiltà della sconfitta, Guanda, Milano, 1975.
7. Cfr. Iijima, Ai, Puratonikku sekkusu, Shogakukan, Tokyo, 2001 (traduzione italiana a cura di Gianluca Coci. 2004. Platonic Sex. Rizzoli, Milano). Il libro è stato accolto tiepidamente dalla critica italiana. Unica eccezione è stata la rivista "LG Argomenti" con un’entusiastica recensione. Cfr. Martorella, Cristiano. Segnalazioni, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, p.82.
8. Questa definizione è del padre della sociologia moderna, il tedesco Max Weber. Cfr. Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958.
Bibliografia
Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori, Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003.
Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001.
Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1 anno XL, gennaio-marzo 2004.
Martorella, Cristiano, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2 anno XL, aprile-giugno 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, anno II, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Giappone inquieto, in "Sushi", nuova serie, anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell’area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis. Gentosha, Tokyo, 2003.
Gothic Lolita
Le adolescenti fanno paura
di Cristiano Martorella
22 gennaio 2005. Con il termine Gothic Lolita, in giapponese Goshikku Rorita, si indica una tipologia di ragazze giapponesi alla moda che fanno tendenza con un abbigliamento neoromantico e un po’ kitsch. L’espressione è stata coniata usando vocaboli stranieri già esistenti, Gothic e Lolita (1), e uniti insieme per assumere un valore nuovo e indicare qualcosa in particolare appartenente alla cultura giovanile giapponese. Infatti le mode della gioventù giapponese sono tante ed è un divertimento crearne sempre nuove. Così è bello ciò che è vario. Esistono già diverse tipologie di ragazze giapponesi in cui si inseriscono le Gothic Lolita (Goshikku Rorita). Ci sono le kogal (kogyaru), termine generico con cui si indicano le ragazze con atteggiamento puerile e volutamente lezioso che trascorrono le giornate dedicandole al divertimento e allo shopping. Poi ci sono le trasgressive ganguro che esibiscono un’abbronzatura scurissima e un trucco contrastante chiaro e pesante. Mentre le ganjiro, anche dette shirogyaru, si mettono in mostra con una pelle chiarissima e un aspetto innocente che è più un vezzo piuttosto che un comportamento spontaneo. Tanto che fu in voga anche l’espressione burikko per indicare una ragazza che finge ingenuità. Viceversa le bodicon (abbreviazione e contrazione di body conscious) vestono in modo estremamente sexy e provocante. Le Gothic Lolita riprendono certi stilemi delle loro coetanee e ne amplificano alcuni aspetti. Sicuramente il contributo della cultura otaku è qui altissimo. Il riferimento ai personaggi dei manga e degli anime è esplicito. Un’autrice di manga che ha contribuito moltissimo a sostenere questa moda, tramite i personaggi da lei disegnati, è Yazawa Ai. L’abbigliamento originale di molte protagoniste dei suoi manga sono un buon modello per le Gothic Lolita. Nemmeno può essere dimenticato il gruppo delle Clamp, autrici di fumetti per ragazze (shojo manga) che tengono in grande considerazione l’abbigliamento e la moda. Inoltre non va dimenticata la produzione di manga hentai e di videogiochi bishoujo dove la figura della Lolita è onnipresente divenendo un’icona e un modello culturale. Basta ricordare il successo dei fumetti di U-Jin e Utatane Hiroyuki, e in tempi più recenti, il lavoro di Carnelian, autrice dell’anime e del bishoujo game intitolato Yami to boshi to hon no tabibito. Questo è il contributo fornito dalla cultura otaku che possiamo riscontrare. Quali sono però le vere intenzioni delle Gothic Lolita nascoste dietro il vestito e la maschera così costruita? In effetti la questione è complessa. Le Gothic Lolita non sono e non aspirano a divenire un gruppo rivoluzionario. La saggistica occidentale ha enfatizzato in modo eccessivo le mode e le tendenze della gioventù giapponese. Spesso, leggendo questi saggi, si ha l’impressione che la gioventù sia in lotta contro la cultura tradizionale giapponese. Vestirsi in una maniera vistosa e trasgressiva non significa necessariamente opporsi alla società e ai modelli culturali dominanti (2). Per fortuna giornalisti intelligenti come Leonardo Martinelli hanno messo in evidenza l’inconsistenza della contestazione dei giovani ribelli giapponesi (3). Ribelli solo nell’abbigliamento. Le Gothic Lolita non vogliono la rivoluzione, semplicemente vogliono divertirsi. Viceversa la cultura giovanile giapponese, anche negli aspetti commerciali della cultura pop, è tuttavia entrata involontariamente in collisione con le trasformazioni sociali del XXI secolo, alimentando uno scontro che in effetti non era cercato. In realtà la gioventù subisce un’aggressione di una tale intensità che ogni compromesso appare irrealizzabile. Il mondo e la cultura otaku sono diventati un movimento eversivo, oppure appaiono così, a causa della fortissima repressione operata sui giovani dalle istituzioni e dal mercato del lavoro imposto a discapito dei diritti civili. Paradossalmente le democrazie attuali tutelano il libero mercato ma non difendono la libertà dei cittadini eliminando le regole che proteggono i lavoratori (questo processo è generalmente chiamato deregulation). Come nel resto del mondo, anche in Giappone la situazione del mercato del lavoro è gravissima. La situazione è peggiorata anche a causa dell’occultamento della realtà operato dai mass media e dalle istituzioni che preferiscono incolpare fumetti e videogiochi del disagio sociale esistente. Si è addirittura inventata la sindrome dell’hikikomori (segregato), amplificando i vecchi studi sulle devianze degli otaku, per dare un’apparenza di scientificità alle vecchie opinioni sulla degenerazione della cultura giovanile. Si può dire però, senza difficoltà alcuna, che la questione hikikomori è stata semplicemente escogitata dai media e dalle istituzioni per indicare nei giovani le colpe da imputare agli adulti. Dalle ricerche che abbiamo condotto sul campo, pubblicate in libri e articoli, è emerso che il lavoro precario (freeter, in giapponese furitaa), introdotto anche in Giappone, è l’autentico responsabile dei disagi sociali che invece si imputano ad anime e manga, videogiochi e internet. La dimostrazione di quanto affermato è nell'inesistenza di studi sulla fruizione dei media in Giappone. Nessuno ha mai studiato la camera di un adolescente, nessuno ha mai condotto ricerche sulla vita degli adolescenti. Tutti invece hanno scritto che gli adolescenti si chiudevano in una stanza per dedicarsi ai loro hobby trascurando la vita sociale. Ebbene, tutte queste affermazioni si basano sul vuoto totale, una completa mancanza di ricerche. Nessuno ha mai condotto ricerche sulla fruizione dei media in Giappone, tutti invece hanno scritto e condannato un mondo paranoico che esisteva soltanto nelle loro teste. Ancora in molti credono che da qualche parte esistano dei libri che descrivono e studiano la fruizione dei media e la vita dei giovani giapponesi. Ricerche approfondite non esistono, non sono mai state condotte perché quello che interessava era inventarsi delle giustificazioni per il degrado sociale in cui sono state gettate le nuove generazioni private dell'assistenza e dei benefici di cui godevano le vecchie generazioni. Sulla psicopatia dei media, definita come sindrome di hikikomori (segregato), la rivista "Psicologia contemporanea" ha dedicato un’inchiesta (4). L’articolo è imbarazzante e approssimativo. Ci si è limitati a ripetere opinioni e luoghi comuni raccolti in internet, e a citare un film. Ma i personaggi dei film non sono persone reali. Invece di condurre ricerche sul campo e osservazioni su persone reali ci si è soffermati a un film, alla fiction che è per definizione una finzione. Ritorniamo però alla definizione di hikikomori. L’hikikomori sarebbe una persona che si chiude in camera per dedicarsi ai videogiochi e alla navigazione in internet troncando le relazioni sociali con gli altri. Questa definizione è già sbagliata e contraddittoria. Infatti i mezzi di comunicazione usati dagli hikikomori aumentano le possibilità di comunicazione invece di diminuirle. Inoltre non si forniscono spiegazioni plausibili sulle cause delle interruzioni di certe relazioni interpersonali. Il sospetto è che i media non siano una causa della patologia, piuttosto un mezzo su cui si concentrano le accuse per distrarre dai veri problemi. Ancora più paradossale è il fatto che i media incolpano se stessi per un fenomeno complesso e incomprensibile, come se soffrissero di una sindrome di onnipotenza. Forse è questa l’autentica psicopatologia: credere che la realtà sia soltanto quella sotto l’obiettivo della telecamera. In questo caso la malattia assume aspetti molto più estesi e articolati. Non si tratta di un fenomeno ristretto ai giovani giapponesi. Anche le Gothic Lolita possono sembrare strane, con il loro atteggiamento inquietante che esibisce ingenuità e disinibizione sessuale, non smettono di suscitare perplessità. Così l’idea sbagliata che considera una generazione di giovani come sbandati e asociali ritorna prepotentemente. Intanto lo stile delle Gothic Lolita fa proseliti. La cantante Gwen Stefani con il videoclip "What you waiting for?" furoreggiava alla fine del 2004. Nel videoclip c’erano ragazze giapponesi in stile tipicamente Gothic Lolita, e la parodia di Alice nel paese delle meraviglie era un forte riferimento alla cultura kawaii. Nel frattempo accade anche qualcosa di inaspettato. Le ragazze giapponesi sono cresciute e hanno incominciato a esprimere le loro opinioni denunciando le storture della società degli adulti. La situazione è ribaltata, così sono gli adulti messi sotto accusa. In questo senso, due casi clamorosi sono stati i libri di Kanehara Hitomi e Iijima Ai. Kanehara Hitomi ha vinto il Premio Akutagawa con il libro Hebi ni piasu (Piercing al serpente) che ha ottenuto un grande successo fra il lettori (5). Kanehara Hitomi ha scandalizzato quanto incantato per l’audacia dei temi trattati, rivedendo i concetti di corpo, personalità e relazione umana. Ella, come tanti giovani giapponesi, è insofferente nei confronti dei soliti cliché che costringono la vita in uno stampino predefinito. I giovani stanno cercando di stabilire rapporti umani più profondi, anche a costo di essere estremi e anticonformisti, e sono pure disposti a rischiare, magari fallire. In fondo nella cultura giapponese, come ci ricorda Ivan Morris (6), la vera sconfitta non è la perdita sul campo di battaglia ma la rinuncia a combattere. Questa è un’autentica affermazione di valori, nuovi valori. Non è nemmeno detto che siano in opposizione ai valori tradizionali giapponesi, come abbiamo appena visto. Siamo ben lontani dal vuoto di valori paventato dagli psicologi frettolosi. Iijima Ai, celebre conduttrice televisiva, ha scandalizzato con la sua autobiografia intitolata Platonic Sex (7). Ella individua le questioni cruciali e scottanti dei rapporti fra giovani e adulti, denunciando i soprusi e tutte le forme di sfruttamento a cui sono sottoposte le nuove generazioni. In nome dell’educazione si subisce ogni tipo di sopruso, si patiscono le violenze di continui e assurdi divieti. Così si finisce per trasgredire cercando di affermare la propria esistenza al di sopra delle proibizioni che non considerano la complessità dell’esistenza umana. Ciò che sorprende è la forza morale sprigionata da Iijima Ai con tanta semplicità e ingenuità. Mai vittimismo nonostante l’evidenza delle ingiustizie. Soltanto coraggio e voglia di affrontare la vita. Ecco perché Platonic Sex è un best-seller adorato da milioni di adolescenti, e resta purtroppo ancora incompreso dagli adulti.
Questi sono soltanto due esempi di un mondo che sta emergendo. Le ragazze giapponesi hanno sempre più voglia di far sentire le proprie idee e si esprimono attraverso tutti i mezzi della società contemporanea: la moda, la televisione, la stampa, i fumetti, internet e i videogiochi.
Un aspetto delle vicende della gioventù giapponese che colpisce lo studioso più di ogni cosa, è lo stato disastroso e lacunoso della ricerca scientifica. La sociologia è una scienza che dovrebbe comprendere l’agire umano nelle sue motivazioni (8). Invece assistiamo a manifestazioni palesi di dilettantismo e superficialità. Si usano ancora le categorie obsolete della devianza giovanile per spiegare fenomeni molto più complessi e articolati. Il rischio è che l’incomprensione si possa poi tramutare in scontro. Allora controllare le trasgressive Gothic Lolita non sarebbe affatto semplice.
Note
1. Lolita è il celebre personaggio dell’omonimo romanzo scandaloso e pruriginoso di Vladimir Nabokov, trasposto in film nel 1962 dal regista Stanley Kubrick. Il romanzo Lolita del 1955 è stato riportato al successo da un’iniziativa del quotidiano "La Repubblica" che lo accludeva al giornale nell’ultima settimana del mese di maggio 2002. Lolita è il ventesimo volume della collana "La biblioteca di Repubblica".
2. Abbiamo duramente contestato le tesi contenute nel volume La bambola e il robottone, senza però ottenere risposte plausibili, al contrario ricevendo soltanto accuse inconsistenti e non attinenti alle nostre critiche. Comunque, chiunque può leggere il libro e constatare quante esagerazioni contiene. Cfr. Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino, 2001. Infine, bisogna ricordare che una solenne stroncatura de La bambola e il robottone è stata pubblicata dalla rivista "LG Argomenti". Si evidenziava così che lo studio della società di massa non può avvenire separatamente dallo studio della società in tutti i suoi aspetti istituzionali, economici e relazionali. Cfr. Martorella, Cristiano, Scaffale/Saggi, in "LG Argomenti", n.2, anno XXXVIII, aprile-giugno 2002, pp.70-71.
3. Cfr. Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001, pp.50-78.
4. Cfr. Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori. Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003, pp.18-25.
5. Cfr. Kanehara, Hitomi, Hebi ni piasu, Shueisha, Tokyo, 2004. La traduzione inglese del titolo è un po’ differente essendo Snakes and Earrings (Serpenti e orecchini).
6. Cfr. Morris, Ivan, La nobiltà della sconfitta, Guanda, Milano, 1975.
7. Cfr. Iijima, Ai, Puratonikku sekkusu, Shogakukan, Tokyo, 2001 (traduzione italiana a cura di Gianluca Coci. 2004. Platonic Sex. Rizzoli, Milano). Il libro è stato accolto tiepidamente dalla critica italiana. Unica eccezione è stata la rivista "LG Argomenti" con un’entusiastica recensione. Cfr. Martorella, Cristiano. Segnalazioni, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, p.82.
8. Questa definizione è del padre della sociologia moderna, il tedesco Max Weber. Cfr. Weber, Max, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958.
Bibliografia
Di Maria, Franco e Formica, Ivan, Hikikomori, Il male oscuro dei figli del Sol Levante, in "Psicologia contemporanea", n.179, anno XXX, settembre-ottobre 2003.
Martinelli, Leonardo, Harajuku: questa pazza, pazza Tokyo…, in "Gulliver", n.3, anno IX, marzo 2001.
Martorella, Cristiano, Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1 anno XL, gennaio-marzo 2004.
Martorella, Cristiano, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2 anno XL, aprile-giugno 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, anno II, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Giappone inquieto, in "Sushi", nuova serie, anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell’area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis. Gentosha, Tokyo, 2003.
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martedì 13 maggio 2008
Kogyaru, le ragazzine vivaci
Ripropongo il mio articolo sulle kogyaru pubblicato dal sito Nipponico.com.
Kogyaru. Le ragazzine vivaci
Antropologia delle vispe ragazze delle metropoli giapponesi
di Cristiano Martorella
13 settembre 2003. Il termine kogyaru, spesso scritto anche kogal, è un neologismo giapponese nato negli anni ’90, ed è composto da un gairaigo (parola d’origine straniera), gyaru (forma giapponese dello slang americano gal, ragazza) e da un prefisso, ko (bambina). Kogyaru significa piccola ragazza, ragazzina, ed indica le giovani giapponesi fra i quindici e i vent’anni circa alla ricerca di un look particolare e un’esistenza spensierata tipica della loro età. L’etimologia del termine kogyaru è dunque semplice e non deve fornire l’occasione per assurde interpretazione (1). Ko è un suffisso usato anche nei nomi femminili (per esempio Haruko, Keiko, etc.) ed ha una valenza di vezzeggiativo. D’altronde è noto come per l’estetica giapponese ciò che è piccolo diviene carino e grazioso. Il tentativo della sociologa Sharon Kinsella di interpretare le kogyaru come un fenomeno di contestazione prodotto dalla società consumistica è aberrante e privo di fondamento scientifico. Le kogyaru si pongono obiettivi ben diversi da quelli supposti da Kinsella. Innanzitutto divertirsi, poi divertirsi e ancora divertirsi. Il loro motto è: "Se lo trovi divertente non chiederti perché". Cosa c’è di strano se le ragazzine vogliono trascorrere delle giornate piacevoli?
Fra le attività preferite dalla kogyaru c’è ballare il parapara. Il parapara è una danza già in voga nel 2000 che si balla muovendo le braccia e le gambe in un modo un po’ figurato. Però lo scopo del parapara è soprattutto creare il riconoscimento nel gruppo, identificandovi attraverso l’imitazione dei movimenti del ballo. Dal punto di vista antropologico il gesto permette anche l’integrazione spazio-temporale attraverso la modulazione delle forme e del movimento. Secondo André Leroi-Gourhan l’estetica costituisce l’evoluzione umana insieme alla tecnica e al linguaggio. Questo trittico etnologico composto da tecnica, linguaggio ed estetica ha un carattere differente nell’ultima istanza. Infatti l’estetica non è determinata soltanto dalla società, ma l’individuo è coscientemente libero della scelta e può perfino creare. Le kogyaru rispecchiano quest’analisi etnologica. Esse non cercano esclusivamente l’omologazione, piuttosto ricercano la creazione di uno stile individuale. Perciò definire un abbigliamento tipico delle kogyaru sarebbe improprio. Certamente svolge un ruolo importante la divisa scolastica che ha centinaia di varianti, così quanti gli istituti scolastici. A ciò si aggiunge la facoltà di cambiare alcuni indumenti, come per esempio i calzini. In particolare, i calzini più in voga fra le kogyaru sono i ruzu sokkusu (calzini larghi e pendenti, dall’inglese loose socks). Questi calzini larghi di colore bianco ricadono sulle scarpe coprendole parzialmente. La gonna, abitualmente una gonna corta blu scuro, si è evoluta in una minigonna a scacchi simile al tartan, di colore consono al resto della divisa. La foggia della divisa scolastica può essere alla marinara (sera fuku, dall’inglese sailor), ma anche un tailleur abbinato a una cravatta. Si tratta comunque di elaborazioni sulle divise dei college di tutto il mondo, a cui si aggiunge il gusto estetico delle kogyaru. Però l’abbigliamento delle kogyaru non è ristretto alla divisa scolastica, anche se questa è particolarmente amata perché simbolo dello status di studentessa e dunque icona della gioventù. Per un certo periodo sono stati di moda gli zatteroni, le zeppe alte e gli stivali, ma anche i pantaloni larghi a zampa d’elefante. Insomma, un ripescaggio del vestiario degli anni ’70. Tutto all’insegna del coloratissimo, dei colori pastello, del fluorescente, di qualcosa che sia sempre sgargiante ed evidente. Ciò con lo scopo di distinguersi assolutamente. Il motto delle kogyaru è: "Essere se stesse".
Per chi è esterno e poco confidente con questo mondo, le kogyaru possono apparire tutte uguali. Eppure i gruppi e le varie denominazioni sono estremamente differenti. Una attenta ricognizione rivelerà come realmente ogni kogyaru sia un’individualità con i propri gusti e tendenze. Perciò per quanto riguarda l’abbigliamento non si può fissare uno stile unico.
Il trucco usato adopera spesso fondotinta azzurri o bianchi che ingrandiscono gli occhi. Il rossetto è chiarissimo, rosa pallido oppure azzurro-violetto. Questo trucco a volte risalta sulla pelle abbronzata detta ganguro. Ganguro gyaru è anche il nome delle ragazze che vantano un’abbronzatura eccessiva. Anche le yamanba, altro celebre gruppo di ragazze trasgressive, hanno l’usanza di abbronzarsi artificialmente. I capelli delle kogyaru sono spesso decolorati castano chiaro (chapatsu), oppure il più vistoso biondo platino con riflessi argentei. Per esigenza di chiarezza, bisogna aggiungere che il tingersi i capelli non rappresenta più una stranezza considerando che questa pratica esiste da secoli in Occidente. Tingersi i capelli era una moda già presente fra le matrone dell’Impero Romano.
Molte riviste sono state dedicate alle kogyaru consacrando il loro status di fenomeno sociale, forse calcando un po’ la mano su una realtà giovanile che non ha nulla di eclatante. Fra queste riviste ricordiamo "Egg", "Urecco" e "Cream". Secondo Urasawa Naoki (2) il movimento giovanile giapponese ripeterebbe certi stilemi degli anni ’70, specialmente nell’estetica, privi però della stessa ideologia. Urasawa ritiene che l’epoca attuale è segnata da una bassa crescita demografica, e ciò impedirebbe la formazione di un movimento molto numeroso. Ridimensionare l’impatto della cultura giovanile giapponese non significa ignorarla. Piuttosto bisogna considerare meglio altri elementi della società che rimangono invisibili a causa di tanto clamore. In questo senso vi riesce Morikawa Kaichiro che elabora una teoria complessa sulle metropoli giapponesi. In precedenza avevamo accennato come le kogyaru con le loro attività integrassero le forme e i ritmi della metropoli modulandone lo spazio e il tempo. In parole semplici, una metropoli è ciò che si svolge in essa piuttosto che lo spazio artificiale degli edifici. Dunque le kogyaru sono coloro che creano fisicamente le metropoli giapponesi. Morikawa Kaichiro si spinge molto più in là. Egli ritiene che Tokyo possa essere considerata come un’unica enorme stanza privata. Si tratta di una comunità di interessi e di uno stesso gusto. Nel libro Learning from Akihabara - The birth of Personapolis, Morikawa , docente di architettura all’Università Waseda, descrive esaurientemente la sua teoria. Ciò che è decisamente innovativo in questo studio, che per certi versi riprende le idee di Ueda Atsushi, è l’attenzione all’ambiente rinunciando alle speculazioni della psicologia del profondo. L’analisi delle metropoli e della loro vita permette di elaborare una psicologia sociale e un’antropologia delle kogyaru molto più interessante e autentica. In conclusione, l’importanza che le kogyaru rivestono è dovuta soprattutto all’ambiente metropolitano che hanno creato.
Note
1. Sbagliata è l’etimologia e le deduzioni conseguenti suggerite dalla sociologa Sharon Kinsella nei suoi testi. Kogyaru non deriverebbe dalla contrazione di kokosei (studentessa delle superiori) e gyaru (ragazza). Sbagliato anche il tentativo di spiegare il termine shojo (ragazza) come rappresentativo di una figura di adolescente metà bambina metà donna prodotta dalla società industriale. Si tratta di speculazioni prive di fondamento e riscontro oggettivo.
2. Cfr. Urasawa, Naoki, 20th Century Boys, Vol.1, Panini Comics, Modena, 2002, pp.208-209.
Bibliografia
Fujii, Mihona, Gals!, Shueisha, Tokyo, 1998.
Kinsella, Sharon, Cuties in Japan, in Skov, Lise e Moeran, Brian, Women, Media and Consumption in Japan. University of Hawaii Press, Honolulu, 1995.
Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Einaudi, Torino, 1977.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Murakami, Ryu, Blu quasi trasparente, Rizzoli, Milano, 1993.
Murakami, Ryu, Rabu & poppu. Gentosha, Tokyo, 1996.
Prandoni, Francesco, Il tempo delle yamanba, in "Man-ga!", n.1, maggio 2001.
Kogyaru. Le ragazzine vivaci
Antropologia delle vispe ragazze delle metropoli giapponesi
di Cristiano Martorella
13 settembre 2003. Il termine kogyaru, spesso scritto anche kogal, è un neologismo giapponese nato negli anni ’90, ed è composto da un gairaigo (parola d’origine straniera), gyaru (forma giapponese dello slang americano gal, ragazza) e da un prefisso, ko (bambina). Kogyaru significa piccola ragazza, ragazzina, ed indica le giovani giapponesi fra i quindici e i vent’anni circa alla ricerca di un look particolare e un’esistenza spensierata tipica della loro età. L’etimologia del termine kogyaru è dunque semplice e non deve fornire l’occasione per assurde interpretazione (1). Ko è un suffisso usato anche nei nomi femminili (per esempio Haruko, Keiko, etc.) ed ha una valenza di vezzeggiativo. D’altronde è noto come per l’estetica giapponese ciò che è piccolo diviene carino e grazioso. Il tentativo della sociologa Sharon Kinsella di interpretare le kogyaru come un fenomeno di contestazione prodotto dalla società consumistica è aberrante e privo di fondamento scientifico. Le kogyaru si pongono obiettivi ben diversi da quelli supposti da Kinsella. Innanzitutto divertirsi, poi divertirsi e ancora divertirsi. Il loro motto è: "Se lo trovi divertente non chiederti perché". Cosa c’è di strano se le ragazzine vogliono trascorrere delle giornate piacevoli?
Fra le attività preferite dalla kogyaru c’è ballare il parapara. Il parapara è una danza già in voga nel 2000 che si balla muovendo le braccia e le gambe in un modo un po’ figurato. Però lo scopo del parapara è soprattutto creare il riconoscimento nel gruppo, identificandovi attraverso l’imitazione dei movimenti del ballo. Dal punto di vista antropologico il gesto permette anche l’integrazione spazio-temporale attraverso la modulazione delle forme e del movimento. Secondo André Leroi-Gourhan l’estetica costituisce l’evoluzione umana insieme alla tecnica e al linguaggio. Questo trittico etnologico composto da tecnica, linguaggio ed estetica ha un carattere differente nell’ultima istanza. Infatti l’estetica non è determinata soltanto dalla società, ma l’individuo è coscientemente libero della scelta e può perfino creare. Le kogyaru rispecchiano quest’analisi etnologica. Esse non cercano esclusivamente l’omologazione, piuttosto ricercano la creazione di uno stile individuale. Perciò definire un abbigliamento tipico delle kogyaru sarebbe improprio. Certamente svolge un ruolo importante la divisa scolastica che ha centinaia di varianti, così quanti gli istituti scolastici. A ciò si aggiunge la facoltà di cambiare alcuni indumenti, come per esempio i calzini. In particolare, i calzini più in voga fra le kogyaru sono i ruzu sokkusu (calzini larghi e pendenti, dall’inglese loose socks). Questi calzini larghi di colore bianco ricadono sulle scarpe coprendole parzialmente. La gonna, abitualmente una gonna corta blu scuro, si è evoluta in una minigonna a scacchi simile al tartan, di colore consono al resto della divisa. La foggia della divisa scolastica può essere alla marinara (sera fuku, dall’inglese sailor), ma anche un tailleur abbinato a una cravatta. Si tratta comunque di elaborazioni sulle divise dei college di tutto il mondo, a cui si aggiunge il gusto estetico delle kogyaru. Però l’abbigliamento delle kogyaru non è ristretto alla divisa scolastica, anche se questa è particolarmente amata perché simbolo dello status di studentessa e dunque icona della gioventù. Per un certo periodo sono stati di moda gli zatteroni, le zeppe alte e gli stivali, ma anche i pantaloni larghi a zampa d’elefante. Insomma, un ripescaggio del vestiario degli anni ’70. Tutto all’insegna del coloratissimo, dei colori pastello, del fluorescente, di qualcosa che sia sempre sgargiante ed evidente. Ciò con lo scopo di distinguersi assolutamente. Il motto delle kogyaru è: "Essere se stesse".
Per chi è esterno e poco confidente con questo mondo, le kogyaru possono apparire tutte uguali. Eppure i gruppi e le varie denominazioni sono estremamente differenti. Una attenta ricognizione rivelerà come realmente ogni kogyaru sia un’individualità con i propri gusti e tendenze. Perciò per quanto riguarda l’abbigliamento non si può fissare uno stile unico.
Il trucco usato adopera spesso fondotinta azzurri o bianchi che ingrandiscono gli occhi. Il rossetto è chiarissimo, rosa pallido oppure azzurro-violetto. Questo trucco a volte risalta sulla pelle abbronzata detta ganguro. Ganguro gyaru è anche il nome delle ragazze che vantano un’abbronzatura eccessiva. Anche le yamanba, altro celebre gruppo di ragazze trasgressive, hanno l’usanza di abbronzarsi artificialmente. I capelli delle kogyaru sono spesso decolorati castano chiaro (chapatsu), oppure il più vistoso biondo platino con riflessi argentei. Per esigenza di chiarezza, bisogna aggiungere che il tingersi i capelli non rappresenta più una stranezza considerando che questa pratica esiste da secoli in Occidente. Tingersi i capelli era una moda già presente fra le matrone dell’Impero Romano.
Molte riviste sono state dedicate alle kogyaru consacrando il loro status di fenomeno sociale, forse calcando un po’ la mano su una realtà giovanile che non ha nulla di eclatante. Fra queste riviste ricordiamo "Egg", "Urecco" e "Cream". Secondo Urasawa Naoki (2) il movimento giovanile giapponese ripeterebbe certi stilemi degli anni ’70, specialmente nell’estetica, privi però della stessa ideologia. Urasawa ritiene che l’epoca attuale è segnata da una bassa crescita demografica, e ciò impedirebbe la formazione di un movimento molto numeroso. Ridimensionare l’impatto della cultura giovanile giapponese non significa ignorarla. Piuttosto bisogna considerare meglio altri elementi della società che rimangono invisibili a causa di tanto clamore. In questo senso vi riesce Morikawa Kaichiro che elabora una teoria complessa sulle metropoli giapponesi. In precedenza avevamo accennato come le kogyaru con le loro attività integrassero le forme e i ritmi della metropoli modulandone lo spazio e il tempo. In parole semplici, una metropoli è ciò che si svolge in essa piuttosto che lo spazio artificiale degli edifici. Dunque le kogyaru sono coloro che creano fisicamente le metropoli giapponesi. Morikawa Kaichiro si spinge molto più in là. Egli ritiene che Tokyo possa essere considerata come un’unica enorme stanza privata. Si tratta di una comunità di interessi e di uno stesso gusto. Nel libro Learning from Akihabara - The birth of Personapolis, Morikawa , docente di architettura all’Università Waseda, descrive esaurientemente la sua teoria. Ciò che è decisamente innovativo in questo studio, che per certi versi riprende le idee di Ueda Atsushi, è l’attenzione all’ambiente rinunciando alle speculazioni della psicologia del profondo. L’analisi delle metropoli e della loro vita permette di elaborare una psicologia sociale e un’antropologia delle kogyaru molto più interessante e autentica. In conclusione, l’importanza che le kogyaru rivestono è dovuta soprattutto all’ambiente metropolitano che hanno creato.
Note
1. Sbagliata è l’etimologia e le deduzioni conseguenti suggerite dalla sociologa Sharon Kinsella nei suoi testi. Kogyaru non deriverebbe dalla contrazione di kokosei (studentessa delle superiori) e gyaru (ragazza). Sbagliato anche il tentativo di spiegare il termine shojo (ragazza) come rappresentativo di una figura di adolescente metà bambina metà donna prodotta dalla società industriale. Si tratta di speculazioni prive di fondamento e riscontro oggettivo.
2. Cfr. Urasawa, Naoki, 20th Century Boys, Vol.1, Panini Comics, Modena, 2002, pp.208-209.
Bibliografia
Fujii, Mihona, Gals!, Shueisha, Tokyo, 1998.
Kinsella, Sharon, Cuties in Japan, in Skov, Lise e Moeran, Brian, Women, Media and Consumption in Japan. University of Hawaii Press, Honolulu, 1995.
Leroi-Gourhan, André, Il gesto e la parola. Einaudi, Torino, 1977.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", anno III, settembre 1997.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Murakami, Ryu, Blu quasi trasparente, Rizzoli, Milano, 1993.
Murakami, Ryu, Rabu & poppu. Gentosha, Tokyo, 1996.
Prandoni, Francesco, Il tempo delle yamanba, in "Man-ga!", n.1, maggio 2001.
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domenica 11 maggio 2008
Repressione giovanile
Ripropongo il mio articolo sulla repressione giovanile pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, pp.71-75.
Yokuatsu. Repressione e giovani
di Cristiano Martorella
La rivista "LG Argomenti" ha fornito, dal 2000 ad oggi, un quadro ormai completo sulla letteratura per l’infanzia, la fiaba, la pedagogia e la cultura giovanile del Giappone, un paese che non finisce mai di stupire per l’originalità e la ricchezza della propria civiltà. Adesso possiamo dedicarci a sviluppare studi più approfonditi che abbiano anche un aspetto sperimentale ed esplorativo, non soltanto informativo e accademico. La ricerca, come ci insegna Max Weber, non è soltanto un’accumulazione di dati, piuttosto è la capacità di elaborare costrutti intellettuali capaci di orientarci nella complessità empirica. Abbiamo già visto come le questioni inerenti la società giapponese ci riguardino direttamente. Il metodo comparativo permette non soltanto di cogliere le similitudini e le differenze, ma di concepire i processi dello sviluppo in modo specifico, senza ricorrere a un modello evolutivo astratto considerato unico e valido per tutte le situazioni. Per questo motivo l’indagine che qui presenteremo sarà inusuale, anticonformista e inedita per i consueti canoni della critica letteraria italiana.
Una ricostruzione storica è un preliminare necessario per inquadrare la questione delicata del fenomeno otaku, prima di passare ai giudizi e alle conseguenze. Il fenomeno otaku, apparso in Giappone intorno agli anni ’80, fu inizialmente usato per marchiare negativamente una vasta fascia della gioventù che non voleva farsi inquadrare nel sistema rigido della società meritocratica (gakureki shakai). Con otaku si indicava una tipologia di giovane incapace di comunicare con gli altri, completamente assorbito in una passione o un hobby fino alla fissazione, e rinchiuso in se stesso tanto da identificarsi con l’ambiente della sua camera. Qui il gioco di parole fra otaku, che significa casa, ma usato anche come la seconda persona singolare del pronome personale in forma cortese, è evidente. Otaku è colui che si ripiega sull’ambiente domestico e bada soltanto a se stesso. La mentalità giapponese fortemente intrisa di una morale confuciana non ancora sparita, non riesce ad accettare un simile atteggiamento introverso, e soprattutto asociale. Il fine ultimo dell’individuo deve essere il bene della collettività secondo i princìpi confuciani. Evidentemente i princìpi astratti della morale confuciana si rivelano molto più artificiali e innaturali di quanto un’analisi superficiale possa pensare. Infatti il confucianesimo è soltanto un innesto nella società giapponese che fonda la sua struttura su basi pagane (shintoismo). Autori come Norinaga Motoori hanno espresso un forte dissenso e disprezzo nei confronti del pensiero cinese. Ciò non va dimenticato. Questa reminiscenza è anche importante per evidenziare come l’atteggiamento degli otaku, che recuperano la cultura autoctona, è pienamente coerente e consequenziale.
L’idea e l’immagine negativa degli otaku non è mai sparita, nemmeno quando il fenomeno è diventato una moda, con aspetti fortemente commerciali, e si è espanso all’estero. Gli appassionati di animazione e fumetti presero con slancio e orgoglio quella definizione, facendone una bandiera. Dopotutto i media sono abilissimi a creare mostri, e quest’ultimi sanno ormai come utilizzare la cassa di risonanza provocata dai clamori e dagli scandali. Appunto gli scandali che non sono mai mancati. Gli otaku infatti furono accusati di consumare fumetti e cartoni animati dai contenuti sessuali più perversi. Così il caso di Tsutomu Miyazaki, maniaco sessuale pluriomicida, fu assunto come esempio rappresentativo della minaccia otaku. Invece di porgere attenzione ai contenuti dei prodotti dell’editoria, si cercava il solito capro espiatorio e si fingeva di non vedere il sistema commerciale nato intorno ai presunti maniaci. La questione della sessualità dei giovani era divenuta talmente controversa che vi fu un autentico movimento per depistare e confondere i cittadini. Schiere di psicologi inventarono nuove patologie, e i sociologi nuove devianze. Era così riportato il tutto all’ordine, bastava dividere i giovani in sani e malati. Almeno così si credeva.
Il fenomeno della repressione contro i giovani assumeva aspetti inquietanti in un paese che godeva di un’ampia libertà sessuale e i diritti civili erano anch’essi garantiti. Eppure basta poco per sopprimere le libertà individuali. La stampa indicò nei giovani la causa della crisi economica, della crisi dei valori, e perfino la crisi demografica. Indolenti, viziati, dediti al sesso sfrenato, ecco il quadro dipinto dai giornali. Nessun intellettuale spese una parola in favore dei giovani, nessun politico vide una briciola di bontà nelle future generazioni. Solo la stampa alternativa, riviste specializzate e fumetti, difendevano i giovani. Praticamente erano le riviste scritte dagli stessi otaku. Meglio così. Ci si difendeva da soli, un’altra dimostrazione di autonomia. Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’era sotto tanta ostilità, cosa provocava la paura degli otaku? Gli otaku erano un pericolo per l’assetto della società e per l’élite politico-economica. Essi sapevano usare straordinariamente bene le nuove tecnologie (computer, internet, telefonia mobile, immagini digitali, etc.), avevano così un’autonomia produttiva (riviste, gadget, video, etc.) erano radicati nella cultura autoctona (ripresa delle credenze shintoiste), avevano un estremismo estetico che scavalcava i limiti nazionali (l’immagine comunica più rapidamente della parola), e soprattutto rifiutavano la politica. Gli studiosi li definirono come un movimento non ideologico di contestazione. Anche qui l’analisi era superficiale e fuorviante, basata sui modelli del ’68. Gli otaku non erano interessati alla contestazione, essi rifiutavano in assoluto il modello politico della dialettica occidentale. "Basta con le chiacchiere, se qualcosa non la senti col cuore come puoi capirla con le parole?" Ecco un motto che spiega il diverso sentire degli otaku. Sarebbe stato più interessante accostare il movimento otaku all’esistenzialismo per coglierne qualche tratto più saliente. Però a nessuno studioso interessava davvero capire gli otaku. Era importante condannare e fornire il supporto ideologico per giustificare la reclusione di tanti giovani nei riformatori e nelle cliniche psichiatriche.
I punti di attrito col sistema democratico erano troppo forti. I giovani rifiutavano il sistema politico rappresentativo perché costituiva un inganno. Come può essere rappresentativo un sistema politico che seleziona i candidati in base al loro potere economico? I candidati sulla scheda elettorale non li scelgono gli elettori, ma gli apparati dei partiti. Dov’è la scelta dell’elettore? D’altronde l’opinione pubblica viene tranquillamente ignorata. Le guerre si fanno senza il consenso dei cittadini, e così procede anche la distruzione dell’ambiente tramite politiche economiche sempre più aggressive. Forse qualche politico tiene in considerazione la volontà degli elettori? Gli otaku rifiutavano la partecipazione a una società civile fondata sull’ipocrisia e la menzogna che si fa chiamare democratica per avere soltanto un maggiore consenso. Così erano chiare le due condanne della società civile contro il movimento otaku: 1) Il ritiro dalla società civile e la moratoria (sospensione dalla responsabilità della vita adulta); 2) L’abbandono delle ideologie (liberalismo, socialismo, comunismo, nazionalismo, etc.) e rifiuto del sistema politico. Ma chi condanna è spesso più colpevole di chi è puntato dal dito. Infatti tutte le accuse contro gli otaku non intaccarono minimamente lo sfruttamento commerciale del fenomeno. Per le aziende qualcosa è buono se si vende. Quindi le condanne moraliste contro la prostituzione delle liceali (burusera) furono soltanto un lungo spot promozionale di vendita dei prodotti più glamour. Infatti erano i giovani i consumatori più accaniti di certi prodotti. Molti prodotti estetici erano rivolti alle ragazze, perfino i centri estetici d’abbronzatura riguardavano un gruppo di giovanissime (yamanba e kogyaru). La florida industria del divertimento poteva sussistere soltanto grazie al lavoro e ai consumi dei giovani. C’era un gioco perverso fra chi condannava, con una falsa morale, la vita consumistica dei giovani, e gli stessi che gestivano e lucravano sul mercato.
Un esempio letterario di questa tendenza è stato rappresentato dalla scrittrice Banana Yoshimoto. Le sue opere descrivono personaggi sospesi in una vita quotidiana dove lo shopping, la cucina, un hobby, costituiscono il senso della loro vita. Una caratteristica molto simile alla tipologia dell’otaku. In una atmosfera ovattata, dove non c’è cognizione di bene e male, giusto e sbagliato, i personaggi si rivelano soltanto in base alla loro capacità di decifrare e dare senso al flusso di percezioni. Aspetti legati alla sessualità scivolano senza l’emozione di una passione. Nei romanzi di Banana Yoshimoto si accenna alla prostituzione, all’incesto fra fratello e sorella, e altre relazioni sessuali illecite, in modo poco coinvolgente e con indifferenza. Sembra che la sessualità sia concepita come un bene di consumo piuttosto che una passione. La scrittrice Reiko Matsuura utilizza il sesso per creare un effetto di straniamento attraverso l’inusuale. Il corpo diventa una bandiera e una forma d’espressione fino al limite. Nel romanzo Oyayubi P no shugyo jidai (L’apprendistato dell’alluce P) narra le vicende erotico-comiche della ventiduenne Kazumi che scopre la trasformazione del suo alluce destro in un pene. La scrittrice Miri Yu narra le vicende di adolescenti allo sbando come in Oro rapace. Una critica feroce ai media e al loro potere di manipolazione è portata avanti in Scene di famiglia. La star televisiva Ai Iijima, diventata scrittrice di successo con la sua autobiografia, cerca di rendere manifesto come si possa trovare un percorso personale che dia senso alla vita degli adolescenti oppressi in un mondo di adulti cinici e bugiardi. In Platonic Sex riesce perfino a dimostrare la purezza dell’animo che rimane inattaccabile nonostante lo sfruttamento sessuale.
La tendenza della letteratura giovanile giapponese sembra essere rivolta ad una denuncia sociale che usa la sessualità come forma di protesta o almeno come dichiarazione d’autonomia. Ciò corrisponde alla tradizione inaugurata nell’epoca Edo (1600-1867) dagli intellettuali vicini alla chonin bunka (cultura dei mercanti). Fu in quel periodo che il governo shogunale adottò un massiccio impiego della polizia per reprimere i testi, le opere teatrali, i libri di stampe troppo critici, adottando il pretesto della moralità. Oggi questa trasformazione viene condotta dai giovani con le modalità che abbiamo visto in precedenza. Non si tratta né di una rivolta né di una rivoluzione, ma di uno strappo forte con gli stili di vita imposti dal regime democratico. Forse ciò è più duraturo e significativo nei cambiamenti. I punti di attrito con il sistema democratico sono soprattutto: 1) La politica sessuale repressiva nei confronti dei giovani; 2) La mancanza di stabilità sociale intaccata dalla disintegrazione del lavoro stabile e dell’assistenza sociale. L’emergenza del disordine sociale creato dalla politica economica diretta esclusivamente a garantire i profitti delle aziende, porterà inevitabilmente ad acuire la repressione nei confronti dei giovani. Arrivati al punto di rottura il sistema democratico a sostegno della dittatura dell’azienda si sfalderà. Un’importanza enorme avrà la letteratura in tutte le sue forme narrative. Infatti l’unico fattore unificante degli otaku è la letteratura (riviste, fumetti, ipertesti, etc.) con la sua capacità di creare una sensibilità comune. Il Giappone sarà il laboratorio sociale del futuro. I passaggi cruciali saranno costituiti dalla critica al modello familiare troppo oppressivo, all’esaltazione dell’edonismo e all’affermazione della libertà sessuale. Parte di questa ricostruzione sociale avverrà con il recupero delle soluzioni tramandate dalla cultura tradizionale. Infatti la sessualità aveva un ruolo più equilibrato e fondativo nel mondo degli antichi, una concezione distrutta dal moralismo delle religioni monoteiste dove il sesso è il peccato per eccellenza. Lo stesso piacere della vita era esaltato dai pagani, viceversa attualmente l’edonismo è sfruttato a livello commerciale ma negato a chi non può comprarselo. Circa la sessualità dei giovani, essa è negata, occultata e ignorata. A livello scientifico ciò provoca un’acuta forma di schizofrenia fra i risultati oggettivi della ricerca e il moralismo bigotto. La letteratura ha il dovere di raccontare cosa sta accadendo nel nostro mondo. Le opere degli autori giapponesi stanno cogliendo questo risultato.
Bibliografia
Calza, Gian Carlo, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002.
Ceci, Cristiana, Sex & sushi, in "Gulliver", n.3 anno X, marzo 2002.
Greenfeld, Karl Taro, Deviazioni standard, Torino, Instar, 2004.
Greenfeld, Karl Taro, Baburu. I figli della grande bolla, Torino, Instar, 1995.
Hite, Shere, Il primo rapporto Hite, un’inchiesta sulla sessualità femminile, Milano, Bompiani, 1977.
Iijima, Ai, Platonic Sex, Milano, Rizzoli, 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell’area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1 anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Matsuura, Reiko, L’alluce P, Venezia, Marsilio, 1998.
Matsuura, Reiko, Corpi di donna, Venezia, Marsilio, 1996.
Reich, Wilhelm, La rivoluzione sessuale, Milano, Feltrinelli, 1963.
Ueda, Atsushi, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Milano, Feltrinelli, 1996.
Yoshimoto, Banana, N.P., Milano Feltrinelli, 1991.
Yoshimoto, Banana, Sonno profondo, Milano Feltrinelli, 1994.
Yoshimoto, Banana, Tsugumi, Milano Feltrinelli, 1994.
Yoshimoto, Banana, Lucertola, Milano Feltrinelli, 1995.
Yu, Miri, Oro rapace, Milano, Feltrinelli, 2001.
Yu, Miri, Scene di famiglia, Venezia, Marsilio, 2001.
Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, pp.71-75.
Yokuatsu. Repressione e giovani
di Cristiano Martorella
La rivista "LG Argomenti" ha fornito, dal 2000 ad oggi, un quadro ormai completo sulla letteratura per l’infanzia, la fiaba, la pedagogia e la cultura giovanile del Giappone, un paese che non finisce mai di stupire per l’originalità e la ricchezza della propria civiltà. Adesso possiamo dedicarci a sviluppare studi più approfonditi che abbiano anche un aspetto sperimentale ed esplorativo, non soltanto informativo e accademico. La ricerca, come ci insegna Max Weber, non è soltanto un’accumulazione di dati, piuttosto è la capacità di elaborare costrutti intellettuali capaci di orientarci nella complessità empirica. Abbiamo già visto come le questioni inerenti la società giapponese ci riguardino direttamente. Il metodo comparativo permette non soltanto di cogliere le similitudini e le differenze, ma di concepire i processi dello sviluppo in modo specifico, senza ricorrere a un modello evolutivo astratto considerato unico e valido per tutte le situazioni. Per questo motivo l’indagine che qui presenteremo sarà inusuale, anticonformista e inedita per i consueti canoni della critica letteraria italiana.
Una ricostruzione storica è un preliminare necessario per inquadrare la questione delicata del fenomeno otaku, prima di passare ai giudizi e alle conseguenze. Il fenomeno otaku, apparso in Giappone intorno agli anni ’80, fu inizialmente usato per marchiare negativamente una vasta fascia della gioventù che non voleva farsi inquadrare nel sistema rigido della società meritocratica (gakureki shakai). Con otaku si indicava una tipologia di giovane incapace di comunicare con gli altri, completamente assorbito in una passione o un hobby fino alla fissazione, e rinchiuso in se stesso tanto da identificarsi con l’ambiente della sua camera. Qui il gioco di parole fra otaku, che significa casa, ma usato anche come la seconda persona singolare del pronome personale in forma cortese, è evidente. Otaku è colui che si ripiega sull’ambiente domestico e bada soltanto a se stesso. La mentalità giapponese fortemente intrisa di una morale confuciana non ancora sparita, non riesce ad accettare un simile atteggiamento introverso, e soprattutto asociale. Il fine ultimo dell’individuo deve essere il bene della collettività secondo i princìpi confuciani. Evidentemente i princìpi astratti della morale confuciana si rivelano molto più artificiali e innaturali di quanto un’analisi superficiale possa pensare. Infatti il confucianesimo è soltanto un innesto nella società giapponese che fonda la sua struttura su basi pagane (shintoismo). Autori come Norinaga Motoori hanno espresso un forte dissenso e disprezzo nei confronti del pensiero cinese. Ciò non va dimenticato. Questa reminiscenza è anche importante per evidenziare come l’atteggiamento degli otaku, che recuperano la cultura autoctona, è pienamente coerente e consequenziale.
L’idea e l’immagine negativa degli otaku non è mai sparita, nemmeno quando il fenomeno è diventato una moda, con aspetti fortemente commerciali, e si è espanso all’estero. Gli appassionati di animazione e fumetti presero con slancio e orgoglio quella definizione, facendone una bandiera. Dopotutto i media sono abilissimi a creare mostri, e quest’ultimi sanno ormai come utilizzare la cassa di risonanza provocata dai clamori e dagli scandali. Appunto gli scandali che non sono mai mancati. Gli otaku infatti furono accusati di consumare fumetti e cartoni animati dai contenuti sessuali più perversi. Così il caso di Tsutomu Miyazaki, maniaco sessuale pluriomicida, fu assunto come esempio rappresentativo della minaccia otaku. Invece di porgere attenzione ai contenuti dei prodotti dell’editoria, si cercava il solito capro espiatorio e si fingeva di non vedere il sistema commerciale nato intorno ai presunti maniaci. La questione della sessualità dei giovani era divenuta talmente controversa che vi fu un autentico movimento per depistare e confondere i cittadini. Schiere di psicologi inventarono nuove patologie, e i sociologi nuove devianze. Era così riportato il tutto all’ordine, bastava dividere i giovani in sani e malati. Almeno così si credeva.
Il fenomeno della repressione contro i giovani assumeva aspetti inquietanti in un paese che godeva di un’ampia libertà sessuale e i diritti civili erano anch’essi garantiti. Eppure basta poco per sopprimere le libertà individuali. La stampa indicò nei giovani la causa della crisi economica, della crisi dei valori, e perfino la crisi demografica. Indolenti, viziati, dediti al sesso sfrenato, ecco il quadro dipinto dai giornali. Nessun intellettuale spese una parola in favore dei giovani, nessun politico vide una briciola di bontà nelle future generazioni. Solo la stampa alternativa, riviste specializzate e fumetti, difendevano i giovani. Praticamente erano le riviste scritte dagli stessi otaku. Meglio così. Ci si difendeva da soli, un’altra dimostrazione di autonomia. Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’era sotto tanta ostilità, cosa provocava la paura degli otaku? Gli otaku erano un pericolo per l’assetto della società e per l’élite politico-economica. Essi sapevano usare straordinariamente bene le nuove tecnologie (computer, internet, telefonia mobile, immagini digitali, etc.), avevano così un’autonomia produttiva (riviste, gadget, video, etc.) erano radicati nella cultura autoctona (ripresa delle credenze shintoiste), avevano un estremismo estetico che scavalcava i limiti nazionali (l’immagine comunica più rapidamente della parola), e soprattutto rifiutavano la politica. Gli studiosi li definirono come un movimento non ideologico di contestazione. Anche qui l’analisi era superficiale e fuorviante, basata sui modelli del ’68. Gli otaku non erano interessati alla contestazione, essi rifiutavano in assoluto il modello politico della dialettica occidentale. "Basta con le chiacchiere, se qualcosa non la senti col cuore come puoi capirla con le parole?" Ecco un motto che spiega il diverso sentire degli otaku. Sarebbe stato più interessante accostare il movimento otaku all’esistenzialismo per coglierne qualche tratto più saliente. Però a nessuno studioso interessava davvero capire gli otaku. Era importante condannare e fornire il supporto ideologico per giustificare la reclusione di tanti giovani nei riformatori e nelle cliniche psichiatriche.
I punti di attrito col sistema democratico erano troppo forti. I giovani rifiutavano il sistema politico rappresentativo perché costituiva un inganno. Come può essere rappresentativo un sistema politico che seleziona i candidati in base al loro potere economico? I candidati sulla scheda elettorale non li scelgono gli elettori, ma gli apparati dei partiti. Dov’è la scelta dell’elettore? D’altronde l’opinione pubblica viene tranquillamente ignorata. Le guerre si fanno senza il consenso dei cittadini, e così procede anche la distruzione dell’ambiente tramite politiche economiche sempre più aggressive. Forse qualche politico tiene in considerazione la volontà degli elettori? Gli otaku rifiutavano la partecipazione a una società civile fondata sull’ipocrisia e la menzogna che si fa chiamare democratica per avere soltanto un maggiore consenso. Così erano chiare le due condanne della società civile contro il movimento otaku: 1) Il ritiro dalla società civile e la moratoria (sospensione dalla responsabilità della vita adulta); 2) L’abbandono delle ideologie (liberalismo, socialismo, comunismo, nazionalismo, etc.) e rifiuto del sistema politico. Ma chi condanna è spesso più colpevole di chi è puntato dal dito. Infatti tutte le accuse contro gli otaku non intaccarono minimamente lo sfruttamento commerciale del fenomeno. Per le aziende qualcosa è buono se si vende. Quindi le condanne moraliste contro la prostituzione delle liceali (burusera) furono soltanto un lungo spot promozionale di vendita dei prodotti più glamour. Infatti erano i giovani i consumatori più accaniti di certi prodotti. Molti prodotti estetici erano rivolti alle ragazze, perfino i centri estetici d’abbronzatura riguardavano un gruppo di giovanissime (yamanba e kogyaru). La florida industria del divertimento poteva sussistere soltanto grazie al lavoro e ai consumi dei giovani. C’era un gioco perverso fra chi condannava, con una falsa morale, la vita consumistica dei giovani, e gli stessi che gestivano e lucravano sul mercato.
Un esempio letterario di questa tendenza è stato rappresentato dalla scrittrice Banana Yoshimoto. Le sue opere descrivono personaggi sospesi in una vita quotidiana dove lo shopping, la cucina, un hobby, costituiscono il senso della loro vita. Una caratteristica molto simile alla tipologia dell’otaku. In una atmosfera ovattata, dove non c’è cognizione di bene e male, giusto e sbagliato, i personaggi si rivelano soltanto in base alla loro capacità di decifrare e dare senso al flusso di percezioni. Aspetti legati alla sessualità scivolano senza l’emozione di una passione. Nei romanzi di Banana Yoshimoto si accenna alla prostituzione, all’incesto fra fratello e sorella, e altre relazioni sessuali illecite, in modo poco coinvolgente e con indifferenza. Sembra che la sessualità sia concepita come un bene di consumo piuttosto che una passione. La scrittrice Reiko Matsuura utilizza il sesso per creare un effetto di straniamento attraverso l’inusuale. Il corpo diventa una bandiera e una forma d’espressione fino al limite. Nel romanzo Oyayubi P no shugyo jidai (L’apprendistato dell’alluce P) narra le vicende erotico-comiche della ventiduenne Kazumi che scopre la trasformazione del suo alluce destro in un pene. La scrittrice Miri Yu narra le vicende di adolescenti allo sbando come in Oro rapace. Una critica feroce ai media e al loro potere di manipolazione è portata avanti in Scene di famiglia. La star televisiva Ai Iijima, diventata scrittrice di successo con la sua autobiografia, cerca di rendere manifesto come si possa trovare un percorso personale che dia senso alla vita degli adolescenti oppressi in un mondo di adulti cinici e bugiardi. In Platonic Sex riesce perfino a dimostrare la purezza dell’animo che rimane inattaccabile nonostante lo sfruttamento sessuale.
La tendenza della letteratura giovanile giapponese sembra essere rivolta ad una denuncia sociale che usa la sessualità come forma di protesta o almeno come dichiarazione d’autonomia. Ciò corrisponde alla tradizione inaugurata nell’epoca Edo (1600-1867) dagli intellettuali vicini alla chonin bunka (cultura dei mercanti). Fu in quel periodo che il governo shogunale adottò un massiccio impiego della polizia per reprimere i testi, le opere teatrali, i libri di stampe troppo critici, adottando il pretesto della moralità. Oggi questa trasformazione viene condotta dai giovani con le modalità che abbiamo visto in precedenza. Non si tratta né di una rivolta né di una rivoluzione, ma di uno strappo forte con gli stili di vita imposti dal regime democratico. Forse ciò è più duraturo e significativo nei cambiamenti. I punti di attrito con il sistema democratico sono soprattutto: 1) La politica sessuale repressiva nei confronti dei giovani; 2) La mancanza di stabilità sociale intaccata dalla disintegrazione del lavoro stabile e dell’assistenza sociale. L’emergenza del disordine sociale creato dalla politica economica diretta esclusivamente a garantire i profitti delle aziende, porterà inevitabilmente ad acuire la repressione nei confronti dei giovani. Arrivati al punto di rottura il sistema democratico a sostegno della dittatura dell’azienda si sfalderà. Un’importanza enorme avrà la letteratura in tutte le sue forme narrative. Infatti l’unico fattore unificante degli otaku è la letteratura (riviste, fumetti, ipertesti, etc.) con la sua capacità di creare una sensibilità comune. Il Giappone sarà il laboratorio sociale del futuro. I passaggi cruciali saranno costituiti dalla critica al modello familiare troppo oppressivo, all’esaltazione dell’edonismo e all’affermazione della libertà sessuale. Parte di questa ricostruzione sociale avverrà con il recupero delle soluzioni tramandate dalla cultura tradizionale. Infatti la sessualità aveva un ruolo più equilibrato e fondativo nel mondo degli antichi, una concezione distrutta dal moralismo delle religioni monoteiste dove il sesso è il peccato per eccellenza. Lo stesso piacere della vita era esaltato dai pagani, viceversa attualmente l’edonismo è sfruttato a livello commerciale ma negato a chi non può comprarselo. Circa la sessualità dei giovani, essa è negata, occultata e ignorata. A livello scientifico ciò provoca un’acuta forma di schizofrenia fra i risultati oggettivi della ricerca e il moralismo bigotto. La letteratura ha il dovere di raccontare cosa sta accadendo nel nostro mondo. Le opere degli autori giapponesi stanno cogliendo questo risultato.
Bibliografia
Calza, Gian Carlo, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002.
Ceci, Cristiana, Sex & sushi, in "Gulliver", n.3 anno X, marzo 2002.
Greenfeld, Karl Taro, Deviazioni standard, Torino, Instar, 2004.
Greenfeld, Karl Taro, Baburu. I figli della grande bolla, Torino, Instar, 1995.
Hite, Shere, Il primo rapporto Hite, un’inchiesta sulla sessualità femminile, Milano, Bompiani, 1977.
Iijima, Ai, Platonic Sex, Milano, Rizzoli, 2004.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in "Sushi", ottobre 1996.
Martorella, Cristiano, Il Giappone inquieto, in "Sushi", settembre 1997.
Martorella, Cristiano, I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell’area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", n.1 anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Matsuura, Reiko, L’alluce P, Venezia, Marsilio, 1998.
Matsuura, Reiko, Corpi di donna, Venezia, Marsilio, 1996.
Reich, Wilhelm, La rivoluzione sessuale, Milano, Feltrinelli, 1963.
Ueda, Atsushi, Electric Geisha. Tra cultura pop e tradizione in Giappone, Milano, Feltrinelli, 1996.
Yoshimoto, Banana, N.P., Milano Feltrinelli, 1991.
Yoshimoto, Banana, Sonno profondo, Milano Feltrinelli, 1994.
Yoshimoto, Banana, Tsugumi, Milano Feltrinelli, 1994.
Yoshimoto, Banana, Lucertola, Milano Feltrinelli, 1995.
Yu, Miri, Oro rapace, Milano, Feltrinelli, 2001.
Yu, Miri, Scene di famiglia, Venezia, Marsilio, 2001.
Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Yokuatsu. Repressione e giovani, in "LG Argomenti", n.2, anno XL, aprile-giugno 2004, pp.71-75.
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mercoledì 7 maggio 2008
L'eros secondo Tanizaki
Vorrei segnalare il mio articolo sul romanziere Tanizaki Jun'ichiro e il suo feticismo per i piedi femminili. L'articolo è stato pubblicato sul sito Nipponico.com. L'articolo si ricollega direttamenta alla concezione molto complessa della sfera dell'eros che autori come Tanizaki, Kawabata e Mishima hanno sviluppato e descritto nelle loro opere.
Il feticismo dei piedi
L'eros alla maniera del maestro Tanizaki Jun'ichiro
di Cristiano Martorella
8 novembre 2004. Tanizaki Jun'ichiro (1886-1965) è fra i romanzieri giapponesi più celebri e significativi del Novecento e gran parte della sua fama è merito anche del suo sofisticato erotismo. Certamente è stata l'opera di Tanizaki ad aver introdotto in Italia e aver fatto conoscere l'eros giapponese con la sua estetica, i rituali e le perversioni codificate da una cultura ricchissima.Fra le passioni dominanti di Tanizaki spicca il suo feticismo per i piedi femminili, tanto che essi sono diventati addirittura protagonisti dei romanzi, come nel caso di I piedi di Fumiko (Fumiko no ashi, 1919, traduzione italiana Marsilio, 1995). Prima di passare ad analizzare l'opera del maestro Tanizaki, conviene ricordare cosa sia e cosa rappresenti in generale il feticismo dei piedi.Col termine feticismo (dal francese fétichisme) si indica un interesse e una attrazione erotica per una parte anatomica o un oggetto. Il feticismo non è soltanto una patologia sessuale, al contrario di quanto pensano in molti. Infatti Sigmund Freud, in Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), spiega che un certo grado di feticismo è di regola proprio dell'amore normale, in special modo in quegli stadi di innamoramento nei quali la meta sessuale normale appare irraggiungibile, oppure sembra negato il suo adempimento. Il caso patologico subentra soltanto quando il feticcio diventa unico oggetto sessuale e impedisce un rapporto sessuale completo. A parte questi evidenti disturbi sessuali, il feticismo è comunque presente nella sfera erotica. Secondo alcuni sessuologi il feticcio più frequente, ed innocuo, è costituito dai piedi. Stranamente è anche la forma di feticismo meno ammessa e discussa, quasi negata rispetto al feticismo del seno. Ciò avviene nella cultura occidentale, per fortuna non è così fra le altre civiltà.In Giappone il feticismo dei piedi è stato perfino elevato alla dignità accademica dalla letteratura del romanziere Tanizaki Jun'ichiro. Fra le opere più note, Il diario di un vecchio pazzo (Futen rojin nikki, 1962, traduzione italiana Bompiani, 1965) è anche quella dove la passione per i piedi arriva all'estremo, tanto che il protagonista Tokusuke farà incidere l'impronta dei piedi dell'amata sulla sua tomba. Con la scusa di riprodurre un Bussokuseki (impronte di Buddha), egli stesso farà una litografia dei piedi della giovane Satsuko usando inchiostro rosso. L'operazione con la verniciatura, la manipolazione, l'asciugatura dei piedi, costituisce un'occasione per avvicinare l'oggetto desiderato. La passione assume anche toni sadomasochistici quando il vecchio fa le sue considerazioni su Satsuko.
"Poi, quando sarò morto, non potrà non pensare: Quello stupido vecchio dorme sotto questi piedi bellissimi. Sto ancora calpestando le ossa di quel povero vecchio sotto terra." (1)
Un approccio diverso, più vitale e fantasioso, è presentato con I piedi di Fumiko, il primo romanzo in cui il feticismo dei piedi è esplicito e dichiarato. Lo stesso nome della protagonista, Fumiko, chiamata anche Ofumi, richiama per omofonia il verbo fumu (calpestare). La descrizione dei piedi è minuziosa, e la cura del dettaglio fin troppo maniacale.
"A dire il vero, ero pure io in estasi per la bellezza della linea dei piedi nudi di Ofumi. Le gambe snelle e tornite come legno levigato con cura, si assottigliavano progressivamente fino alla caviglia da dove aveva inizio, con una leggera curva, il tenero collo del piede. All'estremità si stendevano ben allineate le cinque dita, che partendo dal mignolo si allungavano gradualmente verso la punta dell'alluce: ciò mi pareva molto più bello delle fattezze del suo viso. Lineamenti come i suoi si trovano anche in altre donne, ma non avevo mai visto, fino ad allora, piedi così regolari e splendidi. Quando hanno il collo piatto in modo sgradevole e le dita divaricate che lasciano intravedere le fessure, provocano la stessa spiacevole sensazione di un brutto viso. Al contrario, il collo del suo piede era ben in carne e le cinque dita ben accostate come la lettera m e allineate in ordine come una fila di denti." (2)
Lo scrittore raggiunge la sua massima abilità nell'esaltazione della sensualità ed espressività dei piedi.
"Dato che il piede era inarcato, si vedevano bene anche le pieghe della soffice carne della pianta. Visti da sotto, i polpastrelli tondi e carnosi delle cinque dita rannicchiate erano ben allineati, quasi muscoli di una conchiglia messi uno accanto all'altro. Se non fosse stato per l'illimitata flessibilità delle articolazioni, frutto di nozioni pratiche di danza, il piede non avrebbe mai potuto curvarsi in modo tanto sensuale. L'atteggiamento era provocante come quello di una donna voluttuosa che danzi ondeggiando." (3)
L'amore che Tanizaki nutriva per i piedi delle donne era sincero, e ciò traspare nelle pagine dei suoi romanzi. Questa sincerità è a tratti commovente e ci fa quasi dimenticare che il feticismo dei piedi è ancora considerato una perversione. Si tratta di un tabù ingiusto che ci priva di una risorsa dell'immaginazione, una qualità mostrata dal grande scrittore giapponese in tutto il suo rigoglioso splendore.
Note
1. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro. 1988. Diario di un vecchio pazzo. Bompiani, Milano (seconda edizione dei tascabili Bompiani), p. 168.
2. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro. 1995. I piedi di Fumiko. Marsilio, Venezia, p. 29.
3. Ibidem, pp. 30-31.
Bibliografia
Borneman, Ernest. 1988. Il dizionario dell'erotismo. Fisiologia, psicologia, pratiche, patologia, storia dell'amore e del sesso. Rizzoli, Milano.
Freud, Sigmund. 1989. Sessualità e vita amorosa. Newton Compton, Roma.
Tanizaki, Jun'ichiro. 1995. I piedi di Fumiko. Marsilio, Venezia.
Tanizaki, Jun'ichiro. 1965. Diario di un vecchio pazzo. Bompiani, Milano.
Il feticismo dei piedi
L'eros alla maniera del maestro Tanizaki Jun'ichiro
di Cristiano Martorella
8 novembre 2004. Tanizaki Jun'ichiro (1886-1965) è fra i romanzieri giapponesi più celebri e significativi del Novecento e gran parte della sua fama è merito anche del suo sofisticato erotismo. Certamente è stata l'opera di Tanizaki ad aver introdotto in Italia e aver fatto conoscere l'eros giapponese con la sua estetica, i rituali e le perversioni codificate da una cultura ricchissima.Fra le passioni dominanti di Tanizaki spicca il suo feticismo per i piedi femminili, tanto che essi sono diventati addirittura protagonisti dei romanzi, come nel caso di I piedi di Fumiko (Fumiko no ashi, 1919, traduzione italiana Marsilio, 1995). Prima di passare ad analizzare l'opera del maestro Tanizaki, conviene ricordare cosa sia e cosa rappresenti in generale il feticismo dei piedi.Col termine feticismo (dal francese fétichisme) si indica un interesse e una attrazione erotica per una parte anatomica o un oggetto. Il feticismo non è soltanto una patologia sessuale, al contrario di quanto pensano in molti. Infatti Sigmund Freud, in Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), spiega che un certo grado di feticismo è di regola proprio dell'amore normale, in special modo in quegli stadi di innamoramento nei quali la meta sessuale normale appare irraggiungibile, oppure sembra negato il suo adempimento. Il caso patologico subentra soltanto quando il feticcio diventa unico oggetto sessuale e impedisce un rapporto sessuale completo. A parte questi evidenti disturbi sessuali, il feticismo è comunque presente nella sfera erotica. Secondo alcuni sessuologi il feticcio più frequente, ed innocuo, è costituito dai piedi. Stranamente è anche la forma di feticismo meno ammessa e discussa, quasi negata rispetto al feticismo del seno. Ciò avviene nella cultura occidentale, per fortuna non è così fra le altre civiltà.In Giappone il feticismo dei piedi è stato perfino elevato alla dignità accademica dalla letteratura del romanziere Tanizaki Jun'ichiro. Fra le opere più note, Il diario di un vecchio pazzo (Futen rojin nikki, 1962, traduzione italiana Bompiani, 1965) è anche quella dove la passione per i piedi arriva all'estremo, tanto che il protagonista Tokusuke farà incidere l'impronta dei piedi dell'amata sulla sua tomba. Con la scusa di riprodurre un Bussokuseki (impronte di Buddha), egli stesso farà una litografia dei piedi della giovane Satsuko usando inchiostro rosso. L'operazione con la verniciatura, la manipolazione, l'asciugatura dei piedi, costituisce un'occasione per avvicinare l'oggetto desiderato. La passione assume anche toni sadomasochistici quando il vecchio fa le sue considerazioni su Satsuko.
"Poi, quando sarò morto, non potrà non pensare: Quello stupido vecchio dorme sotto questi piedi bellissimi. Sto ancora calpestando le ossa di quel povero vecchio sotto terra." (1)
Un approccio diverso, più vitale e fantasioso, è presentato con I piedi di Fumiko, il primo romanzo in cui il feticismo dei piedi è esplicito e dichiarato. Lo stesso nome della protagonista, Fumiko, chiamata anche Ofumi, richiama per omofonia il verbo fumu (calpestare). La descrizione dei piedi è minuziosa, e la cura del dettaglio fin troppo maniacale.
"A dire il vero, ero pure io in estasi per la bellezza della linea dei piedi nudi di Ofumi. Le gambe snelle e tornite come legno levigato con cura, si assottigliavano progressivamente fino alla caviglia da dove aveva inizio, con una leggera curva, il tenero collo del piede. All'estremità si stendevano ben allineate le cinque dita, che partendo dal mignolo si allungavano gradualmente verso la punta dell'alluce: ciò mi pareva molto più bello delle fattezze del suo viso. Lineamenti come i suoi si trovano anche in altre donne, ma non avevo mai visto, fino ad allora, piedi così regolari e splendidi. Quando hanno il collo piatto in modo sgradevole e le dita divaricate che lasciano intravedere le fessure, provocano la stessa spiacevole sensazione di un brutto viso. Al contrario, il collo del suo piede era ben in carne e le cinque dita ben accostate come la lettera m e allineate in ordine come una fila di denti." (2)
Lo scrittore raggiunge la sua massima abilità nell'esaltazione della sensualità ed espressività dei piedi.
"Dato che il piede era inarcato, si vedevano bene anche le pieghe della soffice carne della pianta. Visti da sotto, i polpastrelli tondi e carnosi delle cinque dita rannicchiate erano ben allineati, quasi muscoli di una conchiglia messi uno accanto all'altro. Se non fosse stato per l'illimitata flessibilità delle articolazioni, frutto di nozioni pratiche di danza, il piede non avrebbe mai potuto curvarsi in modo tanto sensuale. L'atteggiamento era provocante come quello di una donna voluttuosa che danzi ondeggiando." (3)
L'amore che Tanizaki nutriva per i piedi delle donne era sincero, e ciò traspare nelle pagine dei suoi romanzi. Questa sincerità è a tratti commovente e ci fa quasi dimenticare che il feticismo dei piedi è ancora considerato una perversione. Si tratta di un tabù ingiusto che ci priva di una risorsa dell'immaginazione, una qualità mostrata dal grande scrittore giapponese in tutto il suo rigoglioso splendore.
Note
1. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro. 1988. Diario di un vecchio pazzo. Bompiani, Milano (seconda edizione dei tascabili Bompiani), p. 168.
2. Cfr. Tanizaki, Jun'ichiro. 1995. I piedi di Fumiko. Marsilio, Venezia, p. 29.
3. Ibidem, pp. 30-31.
Bibliografia
Borneman, Ernest. 1988. Il dizionario dell'erotismo. Fisiologia, psicologia, pratiche, patologia, storia dell'amore e del sesso. Rizzoli, Milano.
Freud, Sigmund. 1989. Sessualità e vita amorosa. Newton Compton, Roma.
Tanizaki, Jun'ichiro. 1995. I piedi di Fumiko. Marsilio, Venezia.
Tanizaki, Jun'ichiro. 1965. Diario di un vecchio pazzo. Bompiani, Milano.
domenica 4 maggio 2008
Hentai e letteratura
Ripropongo il mio articolo su manga e letteratura erotica giapponese pubblicato sul n.43 della rivista "Play X". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura oscena e disegni perversi, in "Play X", n.43, maggio 2005, pp.48-49.
Letteratura oscena e disegni perversi
di Cristiano Martorella
I contatti fra manga e "altra" letteratura non sono mai stati messi abbastanza in evidenza in Occidente, incorrendo nel rischio di sottovalutare dei generi richiusi in settori troppo specialistici. Eppure questa letteratura, che pur usando mezzi espressivi diversi è decisamente un fenomeno unitario, ha una diffusione di massa ragguardevole. Cerchiamo quindi di porre rimedio a questa lacuna evidenziando il carattere unitario di manga e letteratura concentrandoci in particolare sul genere erotico.Se gettiamo uno sguardo sulle origini della letteratura popolare giapponese cogliamo già l’unità fra testo letterario e narrazione disegnata. Nei Koshokumono (storie erotiche) del XVII secolo, i volumi sono riccamente illustrati con stampe monocrome. Ad esempio, Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna, 1686) di Saikaku Ihara fu illustrato con 24 stampe di Hanbei Yoshida, mentre Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682), fu pubblicato con 54 disegni dello stesso autore. Due anni dopo, quest’ultima opera venne illustrata da Moronobu, caposcuola dell’ukiyoe. Se si pensa che questo genere di illustrazioni diedero vita appunto al genere dello shunga (stampa erotica), si comprende lo stretto legame, mai cessato, fra letteratura e disegno erotico in Giappone. Ma ritorniamo al presente per analizzare da vicino alcuni casi fra i più noti. Fra le scrittrici che hanno avuto contatti diretti con il mondo dell’hentai, ricordiamo Eimi Yamada. Prima del successo come romanziera, Eimi Yamada aveva lavorato come fotomodella, e soprattutto come autrice di testi di manga per adulti. Oggi questa attività è stata dimenticata, eppure i suoi romanzi erotici, come Occhi nella notte (Beddo taimu aizu, 1987), risentono fortemente l’influenza del ritmo e del linguaggio dei manga. Nei romanzi della scrittrice è il sesso il vero protagonista delle storie. Ella ama esplorare i corpi dei personaggi alla ricerca della più piena soddisfazione libera da falsi pudori e inutili sensi di colpa. L’affermazione assoluta dell’esigenza del piacere femminile espressa in modo chiaro ed esplicito, tanto da apparire trasgressiva. Eimi Yamada arriva a dire che "quello in cui tutti credono, vuoi o non vuoi, è sempre in qualche modo legato al sesso" (intervista della rivista "Nami", 8/1989). Piuttosto che una provocazione, si tratta di uno stile, uno stile decisamente hentai. Esplicito è il rapporto fra manga e letteratura nelle opere di Kiriko Nananan che nasce come disegnatrice, spaziando però anche nella letteratura. Infatti i suoi testi sono considerati come letteratura vera e propria. In Italia una sua opera è stata pubblicata nell’antologia Rose del Giappone (Edizioni e/o, 1995) insieme ai racconti di Eimi Yamada, Yoko Ogawa e Keiko Ochiai. Molto vicina allo shojo manga, il lavoro di Kiriko Nananan si configura come frammenti di vita dove l’eros appare di sfuggita misto a momenti di quotidianità.Anche Shungiku Uchida ha esordito appena ventenne come autrice di manga con testi e disegni suoi. Poi ha iniziato a scrivere racconti erotici dal 1993. In Italia una sua storia è apparsa nell’antologia di racconti erotici intitolata Sex & Sushi (Mondadori, 2001). Con linguaggio asciutto ed esplicito, Shungiku Uchida tratta temi di sesso estremo narrando le vicende di donne disinibite e volitive.Nel mondo dell’hentai più perverso ci conduce il romanzo I maestri dell’eros (Erogotoshitachi, 1963) di Akiyuki Nosaka. Ormai un classico tradotto anche in italiano, I maestri dell’eros (Marsilio, 1998) è stato elogiato da Yukio Mishima come romanzo dissacratore e impertinente. Il romanzo narra le vicende di alcuni produttori di materiale pornografico, e si inserisce nel genere eroguro (erotico e grottesco) per il tono ironico e nel contempo sensuale.La scrittrice Rieko Matsuura descrive la storia di un’autrice di manga erotico-horror in Corpi di donna (Nachuraru uman, 1987). Il libro tradotto in italiano (Marsilio, 1996) è decisamente esplicito mostrando situazioni di sesso lesbo, rapporti sadomasochistici e amplessi ardenti. Nel romanzo L’alluce P (Marsilio, 1998) di Rieko Matsuura, lo stile manga con i suoi eccessi e cliché traspare chiaramente. In pura maniera hentai, ella descrive vicende inverosimili di uomini dotati di due falli, di vagine dentate, e della protagonista Kazumi con un membro maschile al posto dell’alluce. La critica letteraria ha perciò definito l’opera della scrittrice come "pornografia pulp", riconoscendone d’altronde il grande successo.In conclusione, risulta in modo inequivocabile l’unità di letteratura e manga in Giappone, aspetto che risulta ancora più evidente analizzando il settore commerciale e scoprendo che molti grandi editori di narrativa sono anche editori di fumetti. Perciò quando si parla di hentai, si dovrebbe ricordare il contributo fondamentale fornito dalla letteratura evitando di farsi ingabbiare nello schematismo accademico. In Giappone il romanzo erotico può vantare una lunga tradizione e una grande diffusione, tanto che Takashi Furubayashi e Yukio Mishima, in una loro conversazione, hanno criticato la moda di considerare il sesso come opposizione al sistema, ridimensionando un fenomeno dalle enormi proporzioni. Anche il politologo Masao Maruyama ha messo in evidenza il proliferare della narrativa erotica definita "letteratura carnale". Egli riscontra una specificità giapponese nel compiacersi di una sessualità anormale (hentai), rintracciando un rapporto fra arte erotica e politica, e condannandone l’arretratezza intellettuale. Secondo Maruyama la mentalità giapponese pecca di un eccessivo sensualismo inadatto allo sviluppo di forme e istituzioni democratiche. Però questa tesi non è l’unica prospettiva possibile, e possiamo spiegare diversamente il fenomeno hentai sia in letteratura sia nel fumetto. In realtà la sessualità è l’unica sfera in cui i cittadini giapponesi possono vantare un’assoluta libertà. Ma la libertà sessuale da sola non è opposizione al sistema politico, come interpretato da alcuni. Affinché il sesso diventi critica sociale, bisogna che esca fuori dalla standardizzazione e acquisti un valore assoluto, così che diventi erotismo ossia ideologia dell’eros. In quel caso la letteratura diviene oscena perché mostra ciò che il perbenismo nasconde, e il disegno diviene perverso perché diverso dalla rappresentazione omologata del mondo.
Articolo pubblicato dalla rivista "Play X". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura oscena e disegni perversi, in "Play X", n.43, maggio 2005, pp.48-49.
Letteratura oscena e disegni perversi
di Cristiano Martorella
I contatti fra manga e "altra" letteratura non sono mai stati messi abbastanza in evidenza in Occidente, incorrendo nel rischio di sottovalutare dei generi richiusi in settori troppo specialistici. Eppure questa letteratura, che pur usando mezzi espressivi diversi è decisamente un fenomeno unitario, ha una diffusione di massa ragguardevole. Cerchiamo quindi di porre rimedio a questa lacuna evidenziando il carattere unitario di manga e letteratura concentrandoci in particolare sul genere erotico.Se gettiamo uno sguardo sulle origini della letteratura popolare giapponese cogliamo già l’unità fra testo letterario e narrazione disegnata. Nei Koshokumono (storie erotiche) del XVII secolo, i volumi sono riccamente illustrati con stampe monocrome. Ad esempio, Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna, 1686) di Saikaku Ihara fu illustrato con 24 stampe di Hanbei Yoshida, mentre Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682), fu pubblicato con 54 disegni dello stesso autore. Due anni dopo, quest’ultima opera venne illustrata da Moronobu, caposcuola dell’ukiyoe. Se si pensa che questo genere di illustrazioni diedero vita appunto al genere dello shunga (stampa erotica), si comprende lo stretto legame, mai cessato, fra letteratura e disegno erotico in Giappone. Ma ritorniamo al presente per analizzare da vicino alcuni casi fra i più noti. Fra le scrittrici che hanno avuto contatti diretti con il mondo dell’hentai, ricordiamo Eimi Yamada. Prima del successo come romanziera, Eimi Yamada aveva lavorato come fotomodella, e soprattutto come autrice di testi di manga per adulti. Oggi questa attività è stata dimenticata, eppure i suoi romanzi erotici, come Occhi nella notte (Beddo taimu aizu, 1987), risentono fortemente l’influenza del ritmo e del linguaggio dei manga. Nei romanzi della scrittrice è il sesso il vero protagonista delle storie. Ella ama esplorare i corpi dei personaggi alla ricerca della più piena soddisfazione libera da falsi pudori e inutili sensi di colpa. L’affermazione assoluta dell’esigenza del piacere femminile espressa in modo chiaro ed esplicito, tanto da apparire trasgressiva. Eimi Yamada arriva a dire che "quello in cui tutti credono, vuoi o non vuoi, è sempre in qualche modo legato al sesso" (intervista della rivista "Nami", 8/1989). Piuttosto che una provocazione, si tratta di uno stile, uno stile decisamente hentai. Esplicito è il rapporto fra manga e letteratura nelle opere di Kiriko Nananan che nasce come disegnatrice, spaziando però anche nella letteratura. Infatti i suoi testi sono considerati come letteratura vera e propria. In Italia una sua opera è stata pubblicata nell’antologia Rose del Giappone (Edizioni e/o, 1995) insieme ai racconti di Eimi Yamada, Yoko Ogawa e Keiko Ochiai. Molto vicina allo shojo manga, il lavoro di Kiriko Nananan si configura come frammenti di vita dove l’eros appare di sfuggita misto a momenti di quotidianità.Anche Shungiku Uchida ha esordito appena ventenne come autrice di manga con testi e disegni suoi. Poi ha iniziato a scrivere racconti erotici dal 1993. In Italia una sua storia è apparsa nell’antologia di racconti erotici intitolata Sex & Sushi (Mondadori, 2001). Con linguaggio asciutto ed esplicito, Shungiku Uchida tratta temi di sesso estremo narrando le vicende di donne disinibite e volitive.Nel mondo dell’hentai più perverso ci conduce il romanzo I maestri dell’eros (Erogotoshitachi, 1963) di Akiyuki Nosaka. Ormai un classico tradotto anche in italiano, I maestri dell’eros (Marsilio, 1998) è stato elogiato da Yukio Mishima come romanzo dissacratore e impertinente. Il romanzo narra le vicende di alcuni produttori di materiale pornografico, e si inserisce nel genere eroguro (erotico e grottesco) per il tono ironico e nel contempo sensuale.La scrittrice Rieko Matsuura descrive la storia di un’autrice di manga erotico-horror in Corpi di donna (Nachuraru uman, 1987). Il libro tradotto in italiano (Marsilio, 1996) è decisamente esplicito mostrando situazioni di sesso lesbo, rapporti sadomasochistici e amplessi ardenti. Nel romanzo L’alluce P (Marsilio, 1998) di Rieko Matsuura, lo stile manga con i suoi eccessi e cliché traspare chiaramente. In pura maniera hentai, ella descrive vicende inverosimili di uomini dotati di due falli, di vagine dentate, e della protagonista Kazumi con un membro maschile al posto dell’alluce. La critica letteraria ha perciò definito l’opera della scrittrice come "pornografia pulp", riconoscendone d’altronde il grande successo.In conclusione, risulta in modo inequivocabile l’unità di letteratura e manga in Giappone, aspetto che risulta ancora più evidente analizzando il settore commerciale e scoprendo che molti grandi editori di narrativa sono anche editori di fumetti. Perciò quando si parla di hentai, si dovrebbe ricordare il contributo fondamentale fornito dalla letteratura evitando di farsi ingabbiare nello schematismo accademico. In Giappone il romanzo erotico può vantare una lunga tradizione e una grande diffusione, tanto che Takashi Furubayashi e Yukio Mishima, in una loro conversazione, hanno criticato la moda di considerare il sesso come opposizione al sistema, ridimensionando un fenomeno dalle enormi proporzioni. Anche il politologo Masao Maruyama ha messo in evidenza il proliferare della narrativa erotica definita "letteratura carnale". Egli riscontra una specificità giapponese nel compiacersi di una sessualità anormale (hentai), rintracciando un rapporto fra arte erotica e politica, e condannandone l’arretratezza intellettuale. Secondo Maruyama la mentalità giapponese pecca di un eccessivo sensualismo inadatto allo sviluppo di forme e istituzioni democratiche. Però questa tesi non è l’unica prospettiva possibile, e possiamo spiegare diversamente il fenomeno hentai sia in letteratura sia nel fumetto. In realtà la sessualità è l’unica sfera in cui i cittadini giapponesi possono vantare un’assoluta libertà. Ma la libertà sessuale da sola non è opposizione al sistema politico, come interpretato da alcuni. Affinché il sesso diventi critica sociale, bisogna che esca fuori dalla standardizzazione e acquisti un valore assoluto, così che diventi erotismo ossia ideologia dell’eros. In quel caso la letteratura diviene oscena perché mostra ciò che il perbenismo nasconde, e il disegno diviene perverso perché diverso dalla rappresentazione omologata del mondo.
Articolo pubblicato dalla rivista "Play X". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura oscena e disegni perversi, in "Play X", n.43, maggio 2005, pp.48-49.
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Cultura hentai
La rivista "GX Magazine" ha pubblicato un mio articolo dedicato alla cultura giapponese e alla cultura hentai. Lo ripropongo qui di seguito.Cfr. Cristiano Martorella, Cultura hentai, relativismo e politica sessuale, in "GX Magazine", n.24, giugno 2007, pp.25-33.
Cultura hentai, relativismo e politica sessuale
di Cristiano Martorella
Ormai espressioni come cultura otaku, cultura kawaii, e perfino cultura hentai, sono tanto diffuse in Occidente da essere già note ai lettori appassionati del genere. Anche gli studi accademici e le pubblicazioni scientifiche hanno adottato questa terminologia che qualche decennio fa sarebbe stata considerata ridicola. Tuttavia, dopo questa premessa, si deve aggiungere che le valutazioni sulla cultura otaku, e in particolare del genere hentai, restano ancora controverse. La mancanza di una valutazione unanime è causata soprattutto dalle enormi differenze di interpretazione del fenomeno otaku. Il problema nasce dalla mancanza di chiarezza su chi sia e cosa faccia l’otaku. Gran parte della stampa ha sempre definito gli otaku come perditempo, fissati, un po’ maniaci, esagerando platealmente i beceri luoghi comuni. Poi sono arrivati artisti come Murakami Takashi e Nara Yoshitomo, che esponendo opere esplicitamente ispirate alle forme artistiche degli otaku hanno infranto un muro di pregiudizi. Murakami Takashi si è addirittura spinto oltre, emulando chiaramente l’arte hentai. L’opera intitolata Hiropon mostra l’immagine di una ragazza in stile manga che si stringe due immensi seni che spruzzano latte. Sembra l’interpretazione letterale del termine hentai che nel senso originale significa anormale.Ciò che emerge in modo inequivocabile è il fatto che una definizione univoca del termine otaku non è possibile e mai potrà esserlo perché abbraccia manifestazioni ed espressioni differenti di una moltitudine non omogenea che si ispira a manga e anime. Accettando questa considerazione si possono evitare tutte le tipologie false e fuorvianti che sono state inventate da sociologi e psicologi disinvolti, e procedere oltre con un’analisi più aderente alla realtà. Per fornire un quadro definitivo, o almeno meno lacunoso, sulla cultura hentai dobbiamo rispondere a due domande essenziali. La cultura hentai è un fenomeno tradizionale o postmoderno? La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? Le domande sono volutamente estreme, ma sono ciò che si chiederebbe un osservatore neutrale interrogandoci sulla questione. Incominciamo col primo quesito. La cultura hentai è in opposizione con la cultura tradizionale? La risposta è assolutamente negativa. La cultura hentai è la prosecuzione di forme espressive nate in epoche diverse durante lo sviluppo della cultura giapponese. Uno studio accurato della produzione erotica giapponese ci fa scoprire che le stampe shunga prosperarono in epoca Edo (1600-1867) grazie alla diffusione di una ricca narrativa libertina. Infatti i Koshokumono (racconti libidinosi) includevano stampe monocromatiche che si sono poi evolute nelle stampe erotiche ben note a tutti. Questo era il caso delle opere di Ihara Saikaku (1642-1693), come Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna,1686) e Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682). Anche le forme estreme della sessualità, come bondage e sadomasochismo, sono state rappresentate con finezza dal pittore Katsushika Hokusai (1760-1849) nelle sue stampe. Indimenticabile è l’opera intitolata Sogno della moglie del pescatore, dove si anticipa il genere dei tentacoli mostruosi con la raffigurazione di una donna nuda avviluppata da una piovra immensa. Questa documentazione, che è straordinaria sia per quantità sia per qualità, dimostra in modo inequivocabile la continuità della cultura giapponese. Rispondiamo allora al secondo quesito. La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? La cultura hentai è stata descritta come opposizione alla cultura egemone da quei saggisti che dovevano sostenere ad ogni costo una tesi pregiudiziale. In realtà chi legge un bishoujo manga, guarda un anime hentai o un pink eiga, lo fa per divertimento, e certamente non ha l’intento di partecipare a una presunta "rivoluzione". Tuttavia la cultura hentai è divenuta eversiva, o così appare, a causa dell’insostenibile repressione esercitata contro di essa. Non si può nascondere che le opere e gli autori hentai, sia in Italia sia in Giappone, non godano in generale di una buona reputazione. Purtroppo l’apprezzamento rimane limitato a un ristretto gruppo di appassionati che ha abbattuto pregiudizi e ignoranza. Ci accorgiamo allora che per rispondere al secondo quesito dobbiamo capire che cosa c’è di diverso nella cultura hentai rispetto alle altre manifestazioni della sessualità presenti nella nostra società. La risposta è banale ma inquietante. Nell’hentai non c’è alcunché di diverso. Analizzando le opere hentai ci accorgiamo che si fa uso di temi già presenti nella nostra cultura. Perfino le forme più estreme della sessualità sono indicate come sadismo e masochismo ossia parole che nascono dal nome di celebri scrittori occidentali: Sade (1760-1814) e Masoch (1836-1895). Se l’hentai non presenta temi che non siano già stati affrontati in Occidente, perché averne paura? Per quale motivo temerlo tanto da indicarlo come devianza e sovversione? La risposta autentica è difficile da accettare. L’hentai fa paura perché è il prodotto di un’altra cultura. Così la sessualità, già ampiamente normalizzata dalla commercializzazione dell’eros, rischia di ritornare ad essere eversiva unendosi a una matrice culturale differente. Forse è questo che si teme? Indubbiamente ci sono molte esagerazioni, a volte perfino isterismi, nei confronti di tutto ciò che è giapponese. Risulta difficile distinguere le fobie dai fenomeni reali. In questo caso la distinzione è ancora più difficile, ed è sufficiente una lettura dei saggi dedicati all’argomento per accorgersi in quale guazzabuglio ci troviamo. Molti sociologi hanno contribuito notevolmente ad alimentare i pregiudizi sui manga hentai con analisi infarcite di errori e considerazioni fuorvianti. Fra le inesattezze e gli equivoci sostenuti c’è il pregiudizio che i manga hentai siano disegnati soltanto da uomini e per uomini. Questo è assolutamente falso. Le più brave autrici del genere bishoujo manga, un genere indubbiamente erotico, sono state donne. Ci sono poi i ladies comics, fumetti per donne adulte con forti contenuti sessuali, dove le autrici hanno creato un genere e aperto il settore a nuove possibilità. Non bisogna nemmeno dimenticare gli shonen ai, e tutte le riviste (come la famosa Juné) scritte soprattutto da autrici femminili. Quindi la fisima che i manga erotici siano scritti soltanto da uomini è un becero pregiudizio che sottovaluta la creatività femminile e la vorrebbe emarginare. Si rileva così che l’hentai nei suoi aspetti più creativi ed emancipati subisce l’ignoranza più gretta. Viceversa gli autori e le autrici di hentai hanno smosso con la loro fantasia un ampio settore editoriale. Dal punto di vista narrativo e grafico, insomma artistico, non c’è dubbio circa l’importanza e la vastità del fenomeno. Tanto che la cultura hentai costituisce un fenomeno unitario nella cultura giapponese, sfociando anche nelle espressioni d’arte accademiche come nel caso del fotografo Araki Nobuyoshi. Un’analisi più approfondita mostra come le tendenze e le mode, dalla musica all’abbigliamento, risentano dell’influenza della cultura hentai nelle forme più morbidi e dolci del kawaii. Ciò è innegabile. Quindi è fuorviante e privo di senso parlare ancora di subcultura o sottocultura nei riguardi di un fenomeno tanto pervasivo. Piuttosto rimane irrisolto il problema della contestualizzazione e interpretazione della cultura hentai. Oggi la cultura hentai mina le certezze dell’uomo occidentale. Emerge la difficoltà di attualità scottante che imprigiona il pensiero contemporaneo nelle categorie anguste e ristrette del dualismo. Soprattutto rimane l’incapacità di concepire la diversità come qualcosa dotato di proprie caratteristiche, invece di considerarla come ciò che si oppone e contrasta. Le motivazioni di questa incapacità non sono razionali, ma affondano nella paura istintiva e inconscia per tutto ciò che è diverso. La cultura hentai è straniera, e anche strana. La sua "estraneità" giustifica agli occhi degli ingenui ogni tipo di condanna. Da ciò scaturisce il valore etico della cultura hentai promotrice del pluralismo e della molteplicità espressiva, e infine sostenitrice della libertà sessuale. La libertà sessuale che è un valore imprescindibile per le nuove generazioni.
Bibliografia
Avella, Natalie, Graphic Japan. Dalla xilografia allo zen, dai manga al kawaii, Logos, Modena 2005.
Bornoff, Nicholas, Pink Samurai, The pursuit and politics of sex in Japan, Harper & Collins, London 1994.
Carey, Peter, Manga, fast food & samurai, Feltrinelli, Milano 2006.
Leoni, Chiara, Takashi Murakami. Istericamente felice, in "Flash Art", n.256, anno XXXIX, febbraio-marzo 2006.
Martorella, Cristiano, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3, anno II, marzo-maggio 2006.
Nakamura, Akio, Otaku no hon, Takarajimasha, Tokyo 1989.
Rossetti, Gabriele, Japan underground, Castelvecchi, Roma 2006.
Posocco, Cristian, Mangart. Forme estetiche e linguaggio del fumetto giapponese, Costa & Nolan, Milano 2005.
Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine". Cfr. Cristiano Martorella, Cultura hentai, relativismo e politica sessuale, in "GX Magazine", n.24, giugno 2007, pp.25-33.
Cultura hentai, relativismo e politica sessuale
di Cristiano Martorella
Ormai espressioni come cultura otaku, cultura kawaii, e perfino cultura hentai, sono tanto diffuse in Occidente da essere già note ai lettori appassionati del genere. Anche gli studi accademici e le pubblicazioni scientifiche hanno adottato questa terminologia che qualche decennio fa sarebbe stata considerata ridicola. Tuttavia, dopo questa premessa, si deve aggiungere che le valutazioni sulla cultura otaku, e in particolare del genere hentai, restano ancora controverse. La mancanza di una valutazione unanime è causata soprattutto dalle enormi differenze di interpretazione del fenomeno otaku. Il problema nasce dalla mancanza di chiarezza su chi sia e cosa faccia l’otaku. Gran parte della stampa ha sempre definito gli otaku come perditempo, fissati, un po’ maniaci, esagerando platealmente i beceri luoghi comuni. Poi sono arrivati artisti come Murakami Takashi e Nara Yoshitomo, che esponendo opere esplicitamente ispirate alle forme artistiche degli otaku hanno infranto un muro di pregiudizi. Murakami Takashi si è addirittura spinto oltre, emulando chiaramente l’arte hentai. L’opera intitolata Hiropon mostra l’immagine di una ragazza in stile manga che si stringe due immensi seni che spruzzano latte. Sembra l’interpretazione letterale del termine hentai che nel senso originale significa anormale.Ciò che emerge in modo inequivocabile è il fatto che una definizione univoca del termine otaku non è possibile e mai potrà esserlo perché abbraccia manifestazioni ed espressioni differenti di una moltitudine non omogenea che si ispira a manga e anime. Accettando questa considerazione si possono evitare tutte le tipologie false e fuorvianti che sono state inventate da sociologi e psicologi disinvolti, e procedere oltre con un’analisi più aderente alla realtà. Per fornire un quadro definitivo, o almeno meno lacunoso, sulla cultura hentai dobbiamo rispondere a due domande essenziali. La cultura hentai è un fenomeno tradizionale o postmoderno? La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? Le domande sono volutamente estreme, ma sono ciò che si chiederebbe un osservatore neutrale interrogandoci sulla questione. Incominciamo col primo quesito. La cultura hentai è in opposizione con la cultura tradizionale? La risposta è assolutamente negativa. La cultura hentai è la prosecuzione di forme espressive nate in epoche diverse durante lo sviluppo della cultura giapponese. Uno studio accurato della produzione erotica giapponese ci fa scoprire che le stampe shunga prosperarono in epoca Edo (1600-1867) grazie alla diffusione di una ricca narrativa libertina. Infatti i Koshokumono (racconti libidinosi) includevano stampe monocromatiche che si sono poi evolute nelle stampe erotiche ben note a tutti. Questo era il caso delle opere di Ihara Saikaku (1642-1693), come Cinque donne amorose (Koshoku gonin onna,1686) e Vita di un libertino (Koshoku ichidai otoko, 1682). Anche le forme estreme della sessualità, come bondage e sadomasochismo, sono state rappresentate con finezza dal pittore Katsushika Hokusai (1760-1849) nelle sue stampe. Indimenticabile è l’opera intitolata Sogno della moglie del pescatore, dove si anticipa il genere dei tentacoli mostruosi con la raffigurazione di una donna nuda avviluppata da una piovra immensa. Questa documentazione, che è straordinaria sia per quantità sia per qualità, dimostra in modo inequivocabile la continuità della cultura giapponese. Rispondiamo allora al secondo quesito. La cultura hentai è deviante ed eversiva oppure costruttiva? La cultura hentai è stata descritta come opposizione alla cultura egemone da quei saggisti che dovevano sostenere ad ogni costo una tesi pregiudiziale. In realtà chi legge un bishoujo manga, guarda un anime hentai o un pink eiga, lo fa per divertimento, e certamente non ha l’intento di partecipare a una presunta "rivoluzione". Tuttavia la cultura hentai è divenuta eversiva, o così appare, a causa dell’insostenibile repressione esercitata contro di essa. Non si può nascondere che le opere e gli autori hentai, sia in Italia sia in Giappone, non godano in generale di una buona reputazione. Purtroppo l’apprezzamento rimane limitato a un ristretto gruppo di appassionati che ha abbattuto pregiudizi e ignoranza. Ci accorgiamo allora che per rispondere al secondo quesito dobbiamo capire che cosa c’è di diverso nella cultura hentai rispetto alle altre manifestazioni della sessualità presenti nella nostra società. La risposta è banale ma inquietante. Nell’hentai non c’è alcunché di diverso. Analizzando le opere hentai ci accorgiamo che si fa uso di temi già presenti nella nostra cultura. Perfino le forme più estreme della sessualità sono indicate come sadismo e masochismo ossia parole che nascono dal nome di celebri scrittori occidentali: Sade (1760-1814) e Masoch (1836-1895). Se l’hentai non presenta temi che non siano già stati affrontati in Occidente, perché averne paura? Per quale motivo temerlo tanto da indicarlo come devianza e sovversione? La risposta autentica è difficile da accettare. L’hentai fa paura perché è il prodotto di un’altra cultura. Così la sessualità, già ampiamente normalizzata dalla commercializzazione dell’eros, rischia di ritornare ad essere eversiva unendosi a una matrice culturale differente. Forse è questo che si teme? Indubbiamente ci sono molte esagerazioni, a volte perfino isterismi, nei confronti di tutto ciò che è giapponese. Risulta difficile distinguere le fobie dai fenomeni reali. In questo caso la distinzione è ancora più difficile, ed è sufficiente una lettura dei saggi dedicati all’argomento per accorgersi in quale guazzabuglio ci troviamo. Molti sociologi hanno contribuito notevolmente ad alimentare i pregiudizi sui manga hentai con analisi infarcite di errori e considerazioni fuorvianti. Fra le inesattezze e gli equivoci sostenuti c’è il pregiudizio che i manga hentai siano disegnati soltanto da uomini e per uomini. Questo è assolutamente falso. Le più brave autrici del genere bishoujo manga, un genere indubbiamente erotico, sono state donne. Ci sono poi i ladies comics, fumetti per donne adulte con forti contenuti sessuali, dove le autrici hanno creato un genere e aperto il settore a nuove possibilità. Non bisogna nemmeno dimenticare gli shonen ai, e tutte le riviste (come la famosa Juné) scritte soprattutto da autrici femminili. Quindi la fisima che i manga erotici siano scritti soltanto da uomini è un becero pregiudizio che sottovaluta la creatività femminile e la vorrebbe emarginare. Si rileva così che l’hentai nei suoi aspetti più creativi ed emancipati subisce l’ignoranza più gretta. Viceversa gli autori e le autrici di hentai hanno smosso con la loro fantasia un ampio settore editoriale. Dal punto di vista narrativo e grafico, insomma artistico, non c’è dubbio circa l’importanza e la vastità del fenomeno. Tanto che la cultura hentai costituisce un fenomeno unitario nella cultura giapponese, sfociando anche nelle espressioni d’arte accademiche come nel caso del fotografo Araki Nobuyoshi. Un’analisi più approfondita mostra come le tendenze e le mode, dalla musica all’abbigliamento, risentano dell’influenza della cultura hentai nelle forme più morbidi e dolci del kawaii. Ciò è innegabile. Quindi è fuorviante e privo di senso parlare ancora di subcultura o sottocultura nei riguardi di un fenomeno tanto pervasivo. Piuttosto rimane irrisolto il problema della contestualizzazione e interpretazione della cultura hentai. Oggi la cultura hentai mina le certezze dell’uomo occidentale. Emerge la difficoltà di attualità scottante che imprigiona il pensiero contemporaneo nelle categorie anguste e ristrette del dualismo. Soprattutto rimane l’incapacità di concepire la diversità come qualcosa dotato di proprie caratteristiche, invece di considerarla come ciò che si oppone e contrasta. Le motivazioni di questa incapacità non sono razionali, ma affondano nella paura istintiva e inconscia per tutto ciò che è diverso. La cultura hentai è straniera, e anche strana. La sua "estraneità" giustifica agli occhi degli ingenui ogni tipo di condanna. Da ciò scaturisce il valore etico della cultura hentai promotrice del pluralismo e della molteplicità espressiva, e infine sostenitrice della libertà sessuale. La libertà sessuale che è un valore imprescindibile per le nuove generazioni.
Bibliografia
Avella, Natalie, Graphic Japan. Dalla xilografia allo zen, dai manga al kawaii, Logos, Modena 2005.
Bornoff, Nicholas, Pink Samurai, The pursuit and politics of sex in Japan, Harper & Collins, London 1994.
Carey, Peter, Manga, fast food & samurai, Feltrinelli, Milano 2006.
Leoni, Chiara, Takashi Murakami. Istericamente felice, in "Flash Art", n.256, anno XXXIX, febbraio-marzo 2006.
Martorella, Cristiano, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3, anno II, marzo-maggio 2006.
Nakamura, Akio, Otaku no hon, Takarajimasha, Tokyo 1989.
Rossetti, Gabriele, Japan underground, Castelvecchi, Roma 2006.
Posocco, Cristian, Mangart. Forme estetiche e linguaggio del fumetto giapponese, Costa & Nolan, Milano 2005.
Articolo pubblicato dalla rivista "GX Magazine". Cfr. Cristiano Martorella, Cultura hentai, relativismo e politica sessuale, in "GX Magazine", n.24, giugno 2007, pp.25-33.
Bishoujo, la rivolta delle belle ragazze
Ripropongo il mio articolo dedicato ai bishoujo manga pubblicato dalla rivista "GX Magazine" e dal sito Nipponico.com. L'articolo è stato tratto dal sito Nipponico.com alla voce Bishoujo. La rivista "GX Magazine" lo ha pubblicato sulle sue pagine considerandone il valore e l'importanza. Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", n.21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.
Bishoujo, la rivolta delle belle ragazze Le implicazioni politiche e sociali dei manga
di Cristiano Martorella
Non esiste uno scontro fra Occidente e Oriente. Questo conflitto è una semplificazione vantaggiosa per chi ha l'intenzione di occultare gli interessi economici e politici di una élite impegnata a trovare il consenso, a imporre una propria idea del mondo, a eliminare le alternative. Estendere questo controllo sulle menti dei giovani è una direttiva essenziale per garantire la leadership futura dello stesso gruppo dirigente che attualmente detiene il potere. Perciò indicare le istanze giovanili come perversioni è la strategia consueta per sopprimere le diversità. A livello globale ciò viene inserito nel dualismo dello scontro epocale fra Occidente e Oriente, nel conflitto culturale fra sistemi di pensiero e ideologie. Non sorprende dunque che il fumetto e l'animazione giapponese siano stati considerati con estrema serietà quali oggetti di corruzione delle attuali generazioni di giovani europei. Fra la schiera di studiosi che hanno sostenuto ciò ricordiamo Sharon Kinsella, Anne Allison e le italiane Vera Slepoj e Maria Rita Parsi. I loro interventi sono così numerosi e documentati che negare quanto affermato è impossibile. Purtroppo non esiste un confronto fra le diverse posizioni accademiche e ogni ricercatore continua le sue indagini isolatamente ignorando il lavoro altrui(1). Ciò è l'indizio della scorrettezza con cui si conducono le ricerche, che spesso sono soltanto l'esposizione di propri pregiudizi e opinioni prive di valore scientifico.Davvero esiste una gioventù ribelle giapponese come vorrebbero farci credere gli psicologi e i sociologi? Le interviste di Leonardo Martinelli(2) hanno dimostrato il contrario. Il look aggressivo dei giovani giapponesi resta un modo per affermare la propria identità distinguendosi. A volte, viceversa, è l'imposizione di una tendenza e la voglia di fare parte di un gruppo. Comunque, in ogni caso, si cerca il riconoscimento (quello che i filosofi e i sociologi chiamano thymos). Pur avendo fornito un resoconto circostanziato e dettagliato, l'articolo di Leonardo Martinelli è stato volutamente ignorato.La verità è che la gioventù, e non solo quella giapponese, sta apparendo ribelle a causa dell'oppressione degli psicologi e dei sociologi sempre pronti a condannare e mai disponibili a capire. Gli adulti, con il loro mondo di violenze e ipocrisie, sono un pessimo modello che i giovani, fortunatamente, tentano ancora di rifiutare. Attualmente leggere un manga è considerato dagli psicologi italiani come una devianza, o addirittura una perversione. Queste esagerazioni hanno avuto il sostegno della stampa sempre pronta a creare nuovi mostri. Tuttavia la critica serrata di molti autori in difesa di anime e manga, fra cui ricordiamo Luca Raffaelli, Davide Castellazzi e Marco Pellitteri, non è stata mai confutata dimostrando la falsità delle ipotesi contro la cultura giapponese.Gran parte delle considerazioni degli studiosi sulla cultura giovanile vertono sull'impatto e l'influenza dei manga e degli anime, perciò è bene tracciarne un quadro storico più chiaro, con particolare attenzione al genere più controverso, ovvero il manga erotico. Bishoujo significa bella ragazza. Il genere bishoujo manga, il fumetto erotico giapponese in stile non realistico, nasce intorno agli anni '80 dalla congiunzione di due generi molto affermati, lo shoujo manga, fumetto per ragazze, e l'adult manga, fumetto pornografico. Prima dell'avvento dello shoujo manga, i fumetti giapponesi per adulti ricalcavano lo stile realistico e drammatico detto shunga manga, che aveva una certa continuità con il gekiga, il fumetto realistico. L'espansione del genere shoujo manga influenzò e permeò talmente gli altri generi da divenire una tendenza affermata anche a livello culturale ed estetico sotto la bandiera del kawaii (carino). Gli aspetti erotici già presenti nello shoujo manga furono esaltati dal bishoujo manga che non faceva che riprendere e amplificare qualcosa già esistente. Il manga Berusaiyu no bara (Lady Oscar) di Ikeda Riyoko è un esempio evidente del sottile erotismo degli shoujo manga. Perfino un manga apparentemente innocente come Candy Candy di Mizuki Kyouko e Igarashi Yumiko contiene riferimenti velatamente erotici. Ciò spiega l'accanimento della censura italiana e i tagli esorbitanti effettuati sugli anime trasmessi in Italia.Nella cultura giapponese non esiste una separazione netta fra sesso e amore così come è stata formulata dagli occidentali. L'attività sessuale (sekkusu suru) è considerata naturale, e non è in antitesi con i sentimenti amorosi. La morale occidentale bigotta ha sempre sostenuto la superiorità del sentimento sul sesso, negando la possibilità di provare emozioni profonde tramite il piacere dell'attività sessuale. Ciò non ha senso per la mentalità giapponese che vede una continuità fra sesso e amore invece di un'opposizione. Quanto detto ci permette di capire la presenza di un sottile erotismo nel fumetto per ragazze (shoujo manga) dove le storie romantiche e sentimentali sono dominanti, ripreso e amplificato nel bishoujo manga che non disdegna una trama sentimentale nonostante l'abbondanza di riferimenti sessuali.Il passaggio dallo shoujo manga al bishoujo manga avvenne gradualmente. Nakajima Fumio, autore di manga in stile semirealistico, cambiò il suo stile sposando il genere bishoujo. Ciò avveniva intorno alla fine degli anni '80. Nakajima Fumio era stato anche l'autore del primo adult anime video (AAV) intitolato Yuki no kurenai keshou (Il trucco rosso di Yuki, 1984). Ma furono tante le donne che vivacizzarono il genere erotico passando dallo shoujo manga al bishoujo manga portando la loro esperienza e bravura. Ricordiamo Akasha Mitona, autrice di Metamorphose (1992), un manga che gioca con l'identità sessuale. Miyamoto Rumi riprendeva il tema della timidezza femminile nel manga Binkan meganekko (Tenere quattrocchi, 1992). Marino Aya scherzava sulle situazioni che vedono le donne in un ambiente di lavoro tipicamente maschile come in Ikenai shisen sakura iro (Fare l'occhiolino è rosa ciliegia, 1991). Ramiya Ryou sceglieva temi a tinte fosche simili ad horror, con i personaggi di graziose vampire e zombi come in Zombi no shitatari (Gocciolio dello zombi, 1990) e Crescent Night (1993). Asano Kaori era autrice di Vanity Angel (1993) pubblicato dalla Fujimi, un manga che gioca sui difetti del narcisismo femminile. Fra le autrici di testi per manga erotici ricordiamo la scrittrice Yamada Eimi, un'altra firma prestigiosa che cominciò la carriera nel mondo dei manga per adulti. Queste autrici hanno il merito di aver dato un'impronta femminile al genere del fumetto erotico giapponese. Purtroppo in Occidente non si è minimamente capita l'importanza del contributo delle donne nel fumetto erotico giapponese sostenendo il solito pregiudizio che ritiene la pornografia un appannaggio esclusivamente maschile. Sharon Kinsella è fra coloro che hanno contribuito a sostenere questo equivoco. Ciò può accadere soltanto grazie alla consueta ignoranza che circonda la cultura giapponese. Se i giovani fanno notare gli errori degli adulti vengono immediatamente bollati come ribelli.Le belle ragazze giapponesi usano il proprio corpo per affermare l'identità sessuale, e quindi per continuità, l'identità personale. Psicologi e sociologi vorrebbero negare questa conquista di autonomia e indipendenza dei giovani per relegarli in posizioni secondarie e subordinate. Lo scontro che sta emergendo è quello fra una élite che detiene il controllo socio-politico e chi vuole conquistare un proprio spazio nella società. Chiamare ciò conflitto generazionale è limitativo e fuorviante. Lo scontro autentico è quello fra gli oscurantisti e gli spiriti liberi.
Note
1. Chi scrive ha presentato una quantità ragguardevole di ricerche su manga e anime nelle sedi accademiche dell'Università degli Studi di Genova e al Centro Studi di Letteratura Giovanile del Comune di Genova. Però aver dimostrato su basi scientifiche gli errori dei sedicenti esperti non è servito a cambiare i discorsi pregiudiziali della stampa generalista.
2. Cfr. Martinelli, Leonardo. Harajuku. Questa pazza, pazza Tokyo..., in "Gulliver", anno IX, n. 3, marzo 2001, pp. 50-78. Leonardo Martinelli, corrispondente dal Giappone per varie testate giornalistiche, è fonte attendibile. L'articolo non è stato citato e nemmeno contestato da coloro che si definiscono studiosi della cultura giovanile. Semplicemente è stato ignorato perché smaschera tutti gli errori di testi che presentano soltanto stereotipi.
Bibliografia
Allison, Anne. 1994. Nightwork: Sexuality, Pleasure, and Corporate Masculinity in a Tokyo Hostess Club. University of Chicago, Chicago.
Buzzi, Carlo. 1998. Giovani, affettività, sessualità. Il Mulino, Bologna.
Dessalvi, Stefano e Pollicelli, Giuseppe. Disegni leggeri, moralmente corrotti, in "Blue", anno X, n. 110, luglio 2000.
Gomarasca, Alessandro (a cura di). 2001. La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo. Einaudi, Torino.
Hite, Shere. 1977. Il primo rapporto Hite, un'inchiesta sulla sessualità femminile. Bompiani, Milano.
Kinsella, Sharon. 2000. Adult Manga. Curzon Press, London.
Kraft-Ebing, Richard. 1957. Psychopathia sexualis. Manfredi, Milano.
Lowen, Alexander. 1968. Amore e orgasmo. Feltrinelli, Milano.
Martorella, Cristiano. I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano. La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano. Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di). 2002. Anatomia di Pokémon. Seam, Roma.
Martorella, Cristiano. 1999. Quando Uzume salvò il mondo con una risata. Relazione del corso di Linguistica. Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Genova.
Masters, William e Johnson, Virginia. 1967. L'atto sessuale nell'uomo e nella donna. Feltrinelli, Milano.
Pellitteri, Marco. 1999. Mazinga Nostalgia. Storia, valori, linguaggi della Goldrake-generation. Castelvecchi, Roma.
Tannahill, Reay. 1985. Storia dei costumi sessuali. Rizzoli, Milano.
Yamada, Eimi. 1994. Occhi nella notte. Marsilio, Venezia.
Articolo pubblicato dalla rivista GX Magazine. Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", n.21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.
Bishoujo, la rivolta delle belle ragazze Le implicazioni politiche e sociali dei manga
di Cristiano Martorella
Non esiste uno scontro fra Occidente e Oriente. Questo conflitto è una semplificazione vantaggiosa per chi ha l'intenzione di occultare gli interessi economici e politici di una élite impegnata a trovare il consenso, a imporre una propria idea del mondo, a eliminare le alternative. Estendere questo controllo sulle menti dei giovani è una direttiva essenziale per garantire la leadership futura dello stesso gruppo dirigente che attualmente detiene il potere. Perciò indicare le istanze giovanili come perversioni è la strategia consueta per sopprimere le diversità. A livello globale ciò viene inserito nel dualismo dello scontro epocale fra Occidente e Oriente, nel conflitto culturale fra sistemi di pensiero e ideologie. Non sorprende dunque che il fumetto e l'animazione giapponese siano stati considerati con estrema serietà quali oggetti di corruzione delle attuali generazioni di giovani europei. Fra la schiera di studiosi che hanno sostenuto ciò ricordiamo Sharon Kinsella, Anne Allison e le italiane Vera Slepoj e Maria Rita Parsi. I loro interventi sono così numerosi e documentati che negare quanto affermato è impossibile. Purtroppo non esiste un confronto fra le diverse posizioni accademiche e ogni ricercatore continua le sue indagini isolatamente ignorando il lavoro altrui(1). Ciò è l'indizio della scorrettezza con cui si conducono le ricerche, che spesso sono soltanto l'esposizione di propri pregiudizi e opinioni prive di valore scientifico.Davvero esiste una gioventù ribelle giapponese come vorrebbero farci credere gli psicologi e i sociologi? Le interviste di Leonardo Martinelli(2) hanno dimostrato il contrario. Il look aggressivo dei giovani giapponesi resta un modo per affermare la propria identità distinguendosi. A volte, viceversa, è l'imposizione di una tendenza e la voglia di fare parte di un gruppo. Comunque, in ogni caso, si cerca il riconoscimento (quello che i filosofi e i sociologi chiamano thymos). Pur avendo fornito un resoconto circostanziato e dettagliato, l'articolo di Leonardo Martinelli è stato volutamente ignorato.La verità è che la gioventù, e non solo quella giapponese, sta apparendo ribelle a causa dell'oppressione degli psicologi e dei sociologi sempre pronti a condannare e mai disponibili a capire. Gli adulti, con il loro mondo di violenze e ipocrisie, sono un pessimo modello che i giovani, fortunatamente, tentano ancora di rifiutare. Attualmente leggere un manga è considerato dagli psicologi italiani come una devianza, o addirittura una perversione. Queste esagerazioni hanno avuto il sostegno della stampa sempre pronta a creare nuovi mostri. Tuttavia la critica serrata di molti autori in difesa di anime e manga, fra cui ricordiamo Luca Raffaelli, Davide Castellazzi e Marco Pellitteri, non è stata mai confutata dimostrando la falsità delle ipotesi contro la cultura giapponese.Gran parte delle considerazioni degli studiosi sulla cultura giovanile vertono sull'impatto e l'influenza dei manga e degli anime, perciò è bene tracciarne un quadro storico più chiaro, con particolare attenzione al genere più controverso, ovvero il manga erotico. Bishoujo significa bella ragazza. Il genere bishoujo manga, il fumetto erotico giapponese in stile non realistico, nasce intorno agli anni '80 dalla congiunzione di due generi molto affermati, lo shoujo manga, fumetto per ragazze, e l'adult manga, fumetto pornografico. Prima dell'avvento dello shoujo manga, i fumetti giapponesi per adulti ricalcavano lo stile realistico e drammatico detto shunga manga, che aveva una certa continuità con il gekiga, il fumetto realistico. L'espansione del genere shoujo manga influenzò e permeò talmente gli altri generi da divenire una tendenza affermata anche a livello culturale ed estetico sotto la bandiera del kawaii (carino). Gli aspetti erotici già presenti nello shoujo manga furono esaltati dal bishoujo manga che non faceva che riprendere e amplificare qualcosa già esistente. Il manga Berusaiyu no bara (Lady Oscar) di Ikeda Riyoko è un esempio evidente del sottile erotismo degli shoujo manga. Perfino un manga apparentemente innocente come Candy Candy di Mizuki Kyouko e Igarashi Yumiko contiene riferimenti velatamente erotici. Ciò spiega l'accanimento della censura italiana e i tagli esorbitanti effettuati sugli anime trasmessi in Italia.Nella cultura giapponese non esiste una separazione netta fra sesso e amore così come è stata formulata dagli occidentali. L'attività sessuale (sekkusu suru) è considerata naturale, e non è in antitesi con i sentimenti amorosi. La morale occidentale bigotta ha sempre sostenuto la superiorità del sentimento sul sesso, negando la possibilità di provare emozioni profonde tramite il piacere dell'attività sessuale. Ciò non ha senso per la mentalità giapponese che vede una continuità fra sesso e amore invece di un'opposizione. Quanto detto ci permette di capire la presenza di un sottile erotismo nel fumetto per ragazze (shoujo manga) dove le storie romantiche e sentimentali sono dominanti, ripreso e amplificato nel bishoujo manga che non disdegna una trama sentimentale nonostante l'abbondanza di riferimenti sessuali.Il passaggio dallo shoujo manga al bishoujo manga avvenne gradualmente. Nakajima Fumio, autore di manga in stile semirealistico, cambiò il suo stile sposando il genere bishoujo. Ciò avveniva intorno alla fine degli anni '80. Nakajima Fumio era stato anche l'autore del primo adult anime video (AAV) intitolato Yuki no kurenai keshou (Il trucco rosso di Yuki, 1984). Ma furono tante le donne che vivacizzarono il genere erotico passando dallo shoujo manga al bishoujo manga portando la loro esperienza e bravura. Ricordiamo Akasha Mitona, autrice di Metamorphose (1992), un manga che gioca con l'identità sessuale. Miyamoto Rumi riprendeva il tema della timidezza femminile nel manga Binkan meganekko (Tenere quattrocchi, 1992). Marino Aya scherzava sulle situazioni che vedono le donne in un ambiente di lavoro tipicamente maschile come in Ikenai shisen sakura iro (Fare l'occhiolino è rosa ciliegia, 1991). Ramiya Ryou sceglieva temi a tinte fosche simili ad horror, con i personaggi di graziose vampire e zombi come in Zombi no shitatari (Gocciolio dello zombi, 1990) e Crescent Night (1993). Asano Kaori era autrice di Vanity Angel (1993) pubblicato dalla Fujimi, un manga che gioca sui difetti del narcisismo femminile. Fra le autrici di testi per manga erotici ricordiamo la scrittrice Yamada Eimi, un'altra firma prestigiosa che cominciò la carriera nel mondo dei manga per adulti. Queste autrici hanno il merito di aver dato un'impronta femminile al genere del fumetto erotico giapponese. Purtroppo in Occidente non si è minimamente capita l'importanza del contributo delle donne nel fumetto erotico giapponese sostenendo il solito pregiudizio che ritiene la pornografia un appannaggio esclusivamente maschile. Sharon Kinsella è fra coloro che hanno contribuito a sostenere questo equivoco. Ciò può accadere soltanto grazie alla consueta ignoranza che circonda la cultura giapponese. Se i giovani fanno notare gli errori degli adulti vengono immediatamente bollati come ribelli.Le belle ragazze giapponesi usano il proprio corpo per affermare l'identità sessuale, e quindi per continuità, l'identità personale. Psicologi e sociologi vorrebbero negare questa conquista di autonomia e indipendenza dei giovani per relegarli in posizioni secondarie e subordinate. Lo scontro che sta emergendo è quello fra una élite che detiene il controllo socio-politico e chi vuole conquistare un proprio spazio nella società. Chiamare ciò conflitto generazionale è limitativo e fuorviante. Lo scontro autentico è quello fra gli oscurantisti e gli spiriti liberi.
Note
1. Chi scrive ha presentato una quantità ragguardevole di ricerche su manga e anime nelle sedi accademiche dell'Università degli Studi di Genova e al Centro Studi di Letteratura Giovanile del Comune di Genova. Però aver dimostrato su basi scientifiche gli errori dei sedicenti esperti non è servito a cambiare i discorsi pregiudiziali della stampa generalista.
2. Cfr. Martinelli, Leonardo. Harajuku. Questa pazza, pazza Tokyo..., in "Gulliver", anno IX, n. 3, marzo 2001, pp. 50-78. Leonardo Martinelli, corrispondente dal Giappone per varie testate giornalistiche, è fonte attendibile. L'articolo non è stato citato e nemmeno contestato da coloro che si definiscono studiosi della cultura giovanile. Semplicemente è stato ignorato perché smaschera tutti gli errori di testi che presentano soltanto stereotipi.
Bibliografia
Allison, Anne. 1994. Nightwork: Sexuality, Pleasure, and Corporate Masculinity in a Tokyo Hostess Club. University of Chicago, Chicago.
Buzzi, Carlo. 1998. Giovani, affettività, sessualità. Il Mulino, Bologna.
Dessalvi, Stefano e Pollicelli, Giuseppe. Disegni leggeri, moralmente corrotti, in "Blue", anno X, n. 110, luglio 2000.
Gomarasca, Alessandro (a cura di). 2001. La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo. Einaudi, Torino.
Hite, Shere. 1977. Il primo rapporto Hite, un'inchiesta sulla sessualità femminile. Bompiani, Milano.
Kinsella, Sharon. 2000. Adult Manga. Curzon Press, London.
Kraft-Ebing, Richard. 1957. Psychopathia sexualis. Manfredi, Milano.
Lowen, Alexander. 1968. Amore e orgasmo. Feltrinelli, Milano.
Martorella, Cristiano. I fumetti del ciliegio in fiore, in "Il Golfo. Quotidiano dell'area sorrentina e Capri", anno VI, 1 marzo 1996.
Martorella, Cristiano. La rivoluzione invisibile, in "Sushi", n. 3, ottobre 1996.
Martorella, Cristiano. Il kawaii prima del kawaii, in Pellitteri, Marco (a cura di). 2002. Anatomia di Pokémon. Seam, Roma.
Martorella, Cristiano. 1999. Quando Uzume salvò il mondo con una risata. Relazione del corso di Linguistica. Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Genova.
Masters, William e Johnson, Virginia. 1967. L'atto sessuale nell'uomo e nella donna. Feltrinelli, Milano.
Pellitteri, Marco. 1999. Mazinga Nostalgia. Storia, valori, linguaggi della Goldrake-generation. Castelvecchi, Roma.
Tannahill, Reay. 1985. Storia dei costumi sessuali. Rizzoli, Milano.
Yamada, Eimi. 1994. Occhi nella notte. Marsilio, Venezia.
Articolo pubblicato dalla rivista GX Magazine. Cfr. Cristiano Martorella, Bishoujo. La rivolta delle belle ragazze, in "GX Magazine", n.21, settembre-ottobre 2006, pp. 38-39.
Otaku
Ripropongo il mio articolo pubblicato dalla rivista "Gamers". Cfr. Cristiano Martorella, Otaku, in "Gamers", n.3, giugno-luglio 2007, p.5.
Otaku
di Cristiano Martorella
Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka). Fin dagli anni '80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un'autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (doujinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell'interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni '80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.
Qual è dunque l'insegnamento che ci proviene dall'esperienza giapponese? L'aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all'obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c'è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L'altro insegnamento dell'esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l'uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell'equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici.
Articolo pubblicato sulla rivista "Gamers". Cfr. Cristiano Martorella, Otaku, in "Gamers", n.3, giugno-luglio 2007, p.5.
Otaku
di Cristiano Martorella
Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka). Fin dagli anni '80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un'autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (doujinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell'interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni '80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.
Qual è dunque l'insegnamento che ci proviene dall'esperienza giapponese? L'aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all'obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c'è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L'altro insegnamento dell'esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l'uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell'equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici.
Articolo pubblicato sulla rivista "Gamers". Cfr. Cristiano Martorella, Otaku, in "Gamers", n.3, giugno-luglio 2007, p.5.
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