La rivista "Diogene Filosofare Oggi" pubblicò due articoli dedicati al dibattito sui valori etici dei manga. Chi scrive, in qualità di studioso di cultura giapponese, fu interpellato per spiegare i valori positivi dei manga. Quello che segue è l'articolo che è stato pubblicato dalla rivista.
Cfr. Cristiano Martorella, La positività etica dei manga eroi, in "Diogene Filosofare Oggi", n.3 anno II, marzo-maggio 2006, pp.58-59.
La positività etica dei manga eroiI fumetti giapponesi: un tentativo di creare significati in una società senza punti di riferimento
di Cristiano Martorella
I manga sono i celebri fumetti giapponesi che stanno affascinando intere generazioni di giovani, gli anime sono i cartoni animati sempre di produzione nipponica. Intorno a un fenomeno di intrattenimento apparentemente futile, si è sviluppato un dibattito, spesso dai toni vivaci, sul valore educativo di questo genere di letture, e in generale sull’impatto di cartoni animati e fumetti. La questione nasce nel 1979, con la protesta dei genitori di Imola, quando la trasmissione del cartone animato di Mazinga provocò la reazione decisa di educatori e psicologi. Si ravvisavano potenziali pericoli per la salute dei bambini, veicolati dalla fruizione di fumetti e cartoni animati giapponesi. Addirittura fu teorizzato un trauma provocato dalla visione di immagini violente o estranee alla nostra cultura. Anche se personaggi autorevoli e attendibili come la psicologa Liliane Lurçat e lo scrittore e pedagogista Gianni Rodari dichiararono esagerati simili allarmismi, lo scontro fra i due fronti pro e contro non mutò. Tuttavia sull’onda del successo delle pubblicazioni di testate dedicate ai manga, molti autori iniziarono a descrivere anche i valori propositivi contenuti nei fumetti e cartoni animati giapponesi. Nel 1994 il giornalista Luca Raffaelli pubblicò il libro Le anime disegnate, nel quale si affrontava il tema sostenendo il punto di vista giapponese e il relativismo dei valori. Nel 1999 l’esperto di fumetti e animazione Marco Pellitteri pubblicò un corposo volume intitolato Mazinga Nostalgia, nel quale si affermava l’esistenza di una generazione di giovani che si erano formati sui valori dei fumetti e cartoni animati giapponesi. La formazione di nuove competenze fra gli studiosi, e la coscienza del problema fra gli appassionati del genere, molti dei quali divenuti adulti, portò perciò allo sviluppo di una situazione diversa. Quando i soliti critici, fra cui spiccano la psicologa Vera Slepoj e l’opinionista Antonio Marziale, attaccarono i personaggi dei Pokémon (a cui erano dedicati libri, cartoni animati, giochi di carte, giochi per consolle), la risposta che fu fornita fu decisa e netta. Nel 2002 Marco Pellitteri curò la pubblicazione di Anatomia di Pokémon, un volume scritto da uno staff di esperti e studiosi di varie discipline che analizzavano in modo scientifico e accurato il fenomeno. Naturalmente i sostenitori della minaccia del relativismo dei valori di manga e anime non seppero ribattere in alcun modo alle tesi sostenute nel volume, dimostrando quanto le loro accuse fossero infondate, vaghe e generiche. Da allora gli appassionati di manga e anime hanno assunto un’importanza non più trascurabile. Il fenomeno del successo dei fumetti giapponesi non è sparito come una moda passeggera, così come avevano sperato erroneamente molti critici. Al contrario si è consolidato nella società italiana. Per questo motivo l’argomento dei valori etici dei manga è assunto a livelli inaspettati e diventa meritevole di una trattazione esaustiva.Innanzitutto, si deve partire dall’accettazione che manga e anime sono il prodotto di una cultura diversa dalla nostra. I giovani hanno trovato in questo relativismo culturale una ricchezza che la società italiana non forniva da molti anni. Esaurito l’elemento innovativo proposto dalla cultura pop americana, i giovani hanno saputo guardare più lontano rivolgendosi all’Estremo Oriente e al Giappone. Le critiche basate sull’estraneità della cultura espressa da manga e anime sembrano perciò rafforzare il valore etico della diversità culturale. I punti di forza della cultura giapponese sono nell’arte secolare della grafica capace di riempire di significati pochi segni. Una capacità che Roland Barthes aveva messo in evidenza nel saggio L’impero dei segni. L’altro punto di forza è il sistema filosofico giapponese che non si fonda su una conoscenza speculativa di difficile comprensione, ma sulla trasmissione di sentimenti condivisi. Tutto ciò secondo i princìpi di shintoismo e buddhismo. Per questo motivo anche le forme narrative più semplici possono contenere concetti filosofici ed estetici tipici della cultura giapponese. Vediamo alcuni aspetti evidenziati dai critici che hanno ravvisato temi molto interessanti nella diversa concezione narrativa di manga e anime. Luca Raffaelli, Marco Pellitteri e Alessia Martini insistono sulla differenza fra supereroi americani ed eroi giapponesi. I supereroi americani sono personaggi con poteri straordinari e forza sovrumana che operano in modo solitario, invece gli eroi giapponesi sono spesso gracili adolescenti alla guida di robot. Mentre gli americani usano la forza bruta, i giapponesi si appellano alla forza di volontà, al senso del dovere, ai princìpi etici e al lavoro di squadra. La presenza di robot nelle storie giapponesi ha lo scopo di amplificare il valore dei sentimenti umani. Quando l’androide è un cyborg, ossia metà uomo e metà macchina, il suo animo umano prevale sulla macchina. Il contrasto fra meccanico ed essere vivente si svolge drammaticamente mostrando l’incommensurabile superiorità della natura umana dotata di risorse imprevedibili. Gli esseri umani sono capaci di azioni incomprensibili per le macchine incapaci di ragionare al di fuori di schemi logici e razionali prefissati. Storie come Kyashan svolgono questo tema fino al limite e alle estreme conseguenze. Ciò è stato rilevato anche dallo studioso di filosofie orientali Marcello Ghilardi. Il merito di manga e anime è quello di aver esaltato positivamente l’irrazionalità umana e l’ineffabile potere dell’io, in un’epoca di eccessiva dipendenza dalle macchine e dalla tecnologia, giunta fino allo strangolamento dell’esistenza operata dalla burocrazia. Lo stesso atteggiamento drammatico è espresso nei confronti della guerra. Invece di fingere la necessità di un conflitto che è soltanto un misto sanguinolento di follia e distruzione, gli eroi giapponesi esprimono il loro disgusto per la guerra. Essi combattono perché costretti dalle circostanze. Tuttavia non si risparmiano nell’esprimere il loro ribrezzo per lo sterminio di vite nella follia collettiva chiamata guerra. Non si fingono operazioni umanitarie per il mantenimento della pace, non si indicano le vittime innocenti col nome di danni collaterali. Il volto autentico e spietato della guerra viene mostrato senza pietà. Certamente una simile rappresentazione non è affatto utile al convincimento per l’arruolamento nell’esercito. Infatti il boom di manga e anime è coinciso in passato con l’escalation delle domande di obiezione di coscienza al servizio militare quando era ancora obbligatorio. Marco Pellitteri e Alessia Martini sono convinti che la generazione cresciuta con i cartoni animati giapponesi sia essenzialmente pacifista e antimilitarista. Un altro elemento trattato è il rapporto con la natura. Un esempio è fornito dai personaggi dei Pokémon, piccole creature fortemente legate all’ambiente e capaci di evolversi soltanto in particolari condizioni. Ogni Pokémon ha un elemento di origine, così un Pokémon d’acqua sarà più abile nel mare, uno di fuoco in un vulcano, uno di elettricità in una tempesta. Molte serie a fumetti giapponesi raccontano lo stravolgimento operato dall’uomo contro la natura, e denunciano la distruzione provocata dall’inquinamento. Spesso propongono di recuperare l’antico equilibrio e l’armonia fra essere umano e natura tramandato attraverso le credenze shintoiste. Questo è il caso della Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki. Ulteriore importante elemento è il relativismo delle categorie di bene e male. In regola con i princìpi buddhisti che non concepiscono una natura maligna in assoluto, il bene e il male sono considerati come conseguenze dei comportamenti dei personaggi. Così non è raro che un personaggio cattivo decida di cambiare atteggiamento, convinto dalla determinazione e generosità del buono, e passi dall’altra parte. Accade nel fumetto di Dragon Ball, dove Junior diventa grande amico di Goku e tutore di suo figlio Gohan. Infine, ultimo ma non meno incisivo, è l’elemento sessuale. I fumetti giapponesi sono l’unico prodotto per giovani che narrano spontaneamente e senza tabù la sessualità, senza nascondere nemmeno i desideri pruriginosi e le perversioni. Si tratta di una libertà sessuale che gli altri mezzi narrativi stanno conquistando con fatica e fra innumerevoli polemiche. I giovani sono convinti che la libertà sessuale sia un diritto imprescindibile, e non sopportano la morale bigotta che tenta di reprimerli. Per questo hanno riconosciuto nei manga una forma di espressione privilegiata dei loro desideri ed emozioni. Prima di concludere, è doveroso soffermarsi brevemente sul fenomeno degli otaku, gli appassionati di manga e anime che hanno trasformato la loro passione in ragione di vita. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona giapponese di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. Per questo motivo ci sembra giusto interpretare i manga e gli anime come un tentativo di creare significati in una società che ha perso ogni punto di riferimento.
Bibliografia
Barthes, Roland, L'impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984.
Ghilardi, Marcello, Cuore e acciaio, Esedra, Padova, 2003.
Lurçat, Liliane, Il bambino e la televisione, Armando, Roma, 1985.
Martini, Alessia, I robottoni, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia, Castelvecchi, Roma, 1999.
Pellitteri, Marco (a cura), Anatomia di Pokémon, Seam, Roma, 2002.
Prandoni, Francesco, Anime al cinema. Storia del cinema d'animazione giapponese, Yamato Video, Milano, 1999.
Raffaelli, Luca, Le anime disegnate, Castelvecchi, Roma, 1994.
mercoledì 18 giugno 2008
giovedì 12 giugno 2008
La perversione giapponese
Ripropongo il mio articolo sulla perversione giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Etchi.
Etchi. Perversione e gioventù giapponese
di Cristiano Martorella
8 aprile 2003. Il termine giapponese etchi significa perversione, oscenità. Si dice, ad esempio, etchi na hon per indicare un libro osceno (in inglese blue book). L'etimologia di etchi proviene dalla pronuncia giapponese della lettera H, iniziale di hentai (anormalità, perversione). Useremo questa parola per circoscrivere un concetto che probabilmente sarà più elaborato di quanto il significato intuitivo possa far pensare.Dopo lo straordinario successo della conferenza(1), non potevamo esimerci dal tornare sull'argomento della gioventù giapponese per approfondirlo. Sappiamo quanto scalpore abbiano provocato le polemiche sulla questione, e in molti ci hanno chiesto di sviluppare l'indagine appena avanzata. Abbiamo già evidenziato la confusione generata dalla stampa sui manga e la gioventù giapponese(2), però una simile osservazione implica una ricerca più poderosa capace di smuovere il pensiero dal torpore consuetudinario. La stampa italiana ha insistito sulla correlazione fra la gioventù giapponese e il sesso, i fumetti, la masturbazione e la prostituzione veicolati attraverso un uso massiccio ed eccessivo della tecnologia e delle telecomunicazioni. Queste ipotesi, prive di verifiche, sono state amplificate da articoli sensazionalistici che annunciavano disastri e nuove malattie neurologiche causate dalle perversioni giapponesi(3). Se partiamo dall'assioma che la società giapponese sia un aggregato di perversioni, possiamo ribaltare la questione tracciando le coordinate di una simile geometria. L'assioma della perversione giapponese parte dalla costruzione di una geometria che considera il modello sociale occidentale quale riferimento assoluto e ideale. Questo modello fonda la sua centralità sull'enunciato dell'individualismo cosmico. Per l'occidentale l'individuo è sacro, l'io è dio. A dispetto di tale affermazione, l'individualità viene svilita poiché elevata a un principio astratto e universale che elimina il particolare. Ecco allora apparire la perversione, ciò che perturba l'ordine precostituito. La cultura giapponese che unisce lo shintoismo degli otto milioni di dei e il buddhismo dell'eterno mutamento propone una comprensione pluralista che include la contraddizione nella natura della realtà invece di escluderla. La società occidentale riconosce il pericolo sovversivo costituito da una simile concezione che mostra un'alternativa alla logica binaria del bene e del male. Soprattutto coglie la minaccia che il sistema ideologico capace di giustificare l'agire politico ed economico delle potenze del monoblocco occidentale possa essere messo in discussione.Nella cultura giapponese la perversione è simbolo della libertà. Non è un peccato, ma l'affermazione dell'individualità. L'etica confuciana condannava il doppio suicidio per amore (shinju), eppure la maggioranza dei giapponesi era attratta da questa affermazione assoluta dell'individuo capace di opporsi alla società. Il successo dei drammi sull'argomento dimostrò l'artificiosità dell'etica e il prevalere della passionalità sulla burocrazia. Insomma, per i giapponesi il confronto fra eros ed ethos vede prevalere di misura il primo (qualcosa di simile avveniva nella tragedia dei greci, anch'essi pagani come i giapponesi). Nel 1908 la scrittrice Hiratsuka Raicho aveva emblematicamente affermato il primato dell'individuo tentando il suicidio con il suo amante. Nel 1948 commise shinju Dazai Osamu, scrittore dissacratore della società contemporanea. Nel 1970 si suicidò Mishima Yukio artefice della "morte erotica" (definizione del biografo John Nathan). In tutta la sua opera egli aveva indicato l'identità di eros ed ethos. Dunque assistiamo a una costante nella storia culturale giapponese. Gli occidentali non soltanto considerano il suicidio un peccato, ma addirittura un tabù. Non se ne discute, e chi lo pratica viene considerato disturbato, oppure commiserato per l'errore commesso. Gli occidentali sono così schiavi del loro dio unico che non posseggono nemmeno la propria vita. Poiché la vita è considerata un dono di dio, nessuno può privarsene essendo cosa che non gli appartiene. La violazione equivale a un peccato mortale, all'abuso della proprietà altrui. Così si smaschera l'ipocrisia dell'individualismo occidentale, una forma di alienazione della vita che viene concessa dalla divinità. La stessa forma di alienazione efficacemente applicata dal capitalismo che espropria il lavoro al lavoratore. La religione occidentale espropria la vita al vivente. Non è una coincidenza se si considera l'analisi di Max Weber che rintraccia una sostanziale influenza fra cristianesimo e capitalismo(4). La pericolosità della perversione giapponese non è etica, ma assolutamente politica, come stiamo qui scoprendo. La gestione dell'eros corrisponde a dominare l'organizzazione sociale contemporanea. Il timore per il potere economico giapponese è calato, però non è diminuita la minaccia rappresentata dall'eros nipponico. Le strane tribù giapponesi stanno contaminando i giovani e ingenui adolescenti europei con un armamentario straordinario e terrificante di fantasie e perversioni. Nessuna legge e censura è riuscita finora ad arrestare la minaccia. Attraverso la lettura dei manga si alimenta una passione evasiva ed eversiva che danneggia, così si crede, i futuri cittadini europei. Questa è la tesi sotterranea che alimenta i pregiudizi sui giovani e le loro letture. I segnali inquietanti della degenerazione sono colti nelle manifestazioni della disubbidienza. Il rifiuto totale della guerra espresso dai cortei pacifisti ne sarebbe l'indizio. Ciò che spaventa è una gioventù ribelle priva di ideologia che contesta radicalmente il modello occidentale.Se le cose stanno così, allora conviene schierarsi dalla parte della perversione, proclamando la virtù della perversione. I giovani italiani hanno conosciuto l'atrocità della guerra attraverso le snervanti battaglie giapponesi proiettate sui teleschermi(5). Se per gli adulti esse erano diseducative, perché strabordanti di violenza, per gli adolescenti erano istruttive perché mostravano l'autentico volto della guerra. Alle parole dei moralisti si opponeva il sangue che colava sulla spada. Nel Novecento si poteva parlare senza smentita di guerra giusta, nel Terzo Millennio ciò non era più consentito senza una vigorosa reazione di sdegno. La nuova generazione condannava sia la guerra giusta sia la guerra santa come artifici retorici per giustificare la guerra atroce. La minaccia si era tramutata in realtà: i fumetti e l'animazione giapponese avevano educato gli adolescenti secondo i valori del paese del Sol Levante, una nazione che aveva conosciuto gli orrori della guerra, del militarismo, dell'industrializzazione selvaggia e aveva reagito con vigore e prontezza fornendo una critica severa dell'imperialismo e del capitalismo.La pedagogia occidentale ha cercato inutilmente di imporre le avventure dei paperi in sostituzione delle oscene studentesse guerriere. Non vi è riuscita. Nemmeno i comitati organizzati dagli esperti Maria Rita Parsi, Vera Slepoj e Antonio Marziale, instancabili oppositori di anime e manga, sono riusciti a cancellare i cartoni animati giapponesi dallo schermo. Perfino le leggi più severe si sono rivelate inapplicabili. Perché? La risposta è semplice e disarmante. Manga e anime presentano una prospettiva capace di fornire una lettura critica della realtà. Cancellarli equivarrebbe a evitare di mettere in discussione la realtà. Ma chi ha assaggiato il frutto proibito dell'albero della conoscenza vuole continuare a mangiarne. Chi ha cominciato a pensare liberamente non accetta le imposizioni di un dio che ci vuole mantenere nell'ignoranza.Questo per quanto riguarda la situazione italiana. Ma per la società giapponese, quali considerazioni vanno svolte? Ciò che gli studiosi hanno mancato di sottolineare è la capacità della cultura giapponese di creare forti voci di dissenso. In Giappone, come abbiamo già evidenziato, l'eros è associato alla libertà tanto che si potrebbe studiare una corrente del liberalismo sessuale tipicamente giapponese. Essa ebbe le sue origini nella cultura del periodo Edo (1600-1867) e nel mondo fluttuante (ukiyo) che fu la fucina degli intellettuali e della borghesia in opposizione al regime dominante. In quel periodo vi fu una corrispondenza fra potere economico e classe emergente, in parte favorita e in parte ostacolata dal potere politico shogunale. L'eredità di questa tradizione erotico-liberale si può ritrovare negli attuali artisti giapponesi come il fotografo Araki Nobuyoshi, l'illustratore Sorayama Hajime, e l'autrice di "ladies comics" Morizono Milk. Gli artisti giapponesi non hanno mai cessato di considerare la sessualità come una forza della natura talmente potente da sovvertire il fragile e artificiale ordine sociale.In conclusione si può affermare che l'autentica oscenità (etchi) è costituita dalla libertà di pensiero che come il desiderio erotico si accende, avviluppa e sviluppa senza porsi limiti.
Note
1. Martorella, Cristiano. Gioventù giapponese e letteratura come vita. Relazione al convegno "Magico come un libro". Biblioteca Internazionale per la Gioventù E. De Amicis, Genova, 15 novembre 2001.
2. Martorella, Cristiano. Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 1, gennaio-marzo 2003, pp. 67-71.
3. Gli articoli da citare potrebbero essere tantissimi, ma ci limitiamo ai più importanti: Pisu, Renata. Samurai robot, in "L'Espresso", anno XLVIII, n. 29, 18 luglio 2002, pp. 112-116; D'Emilia, Pio. Jap Mania, in "Marie Claire", anno I, n. 3, marzo 2003, pp. 304-314.
4. Weber, Max. 1945. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Sansoni, Firenze.
5. Importante in tal senso l'intervento di Marco Pellitteri sul tema della guerra nei fumetti, che ribadisce il valore pedagogico delle opere giapponesi. Cfr. Pellitteri, Marco. La follia della guerra narrata ai ragazzi. La storia nei fumetti, in "Il Pepeverde", n. 5, 2000, pp. 21-23.
Etchi. Perversione e gioventù giapponese
di Cristiano Martorella
8 aprile 2003. Il termine giapponese etchi significa perversione, oscenità. Si dice, ad esempio, etchi na hon per indicare un libro osceno (in inglese blue book). L'etimologia di etchi proviene dalla pronuncia giapponese della lettera H, iniziale di hentai (anormalità, perversione). Useremo questa parola per circoscrivere un concetto che probabilmente sarà più elaborato di quanto il significato intuitivo possa far pensare.Dopo lo straordinario successo della conferenza(1), non potevamo esimerci dal tornare sull'argomento della gioventù giapponese per approfondirlo. Sappiamo quanto scalpore abbiano provocato le polemiche sulla questione, e in molti ci hanno chiesto di sviluppare l'indagine appena avanzata. Abbiamo già evidenziato la confusione generata dalla stampa sui manga e la gioventù giapponese(2), però una simile osservazione implica una ricerca più poderosa capace di smuovere il pensiero dal torpore consuetudinario. La stampa italiana ha insistito sulla correlazione fra la gioventù giapponese e il sesso, i fumetti, la masturbazione e la prostituzione veicolati attraverso un uso massiccio ed eccessivo della tecnologia e delle telecomunicazioni. Queste ipotesi, prive di verifiche, sono state amplificate da articoli sensazionalistici che annunciavano disastri e nuove malattie neurologiche causate dalle perversioni giapponesi(3). Se partiamo dall'assioma che la società giapponese sia un aggregato di perversioni, possiamo ribaltare la questione tracciando le coordinate di una simile geometria. L'assioma della perversione giapponese parte dalla costruzione di una geometria che considera il modello sociale occidentale quale riferimento assoluto e ideale. Questo modello fonda la sua centralità sull'enunciato dell'individualismo cosmico. Per l'occidentale l'individuo è sacro, l'io è dio. A dispetto di tale affermazione, l'individualità viene svilita poiché elevata a un principio astratto e universale che elimina il particolare. Ecco allora apparire la perversione, ciò che perturba l'ordine precostituito. La cultura giapponese che unisce lo shintoismo degli otto milioni di dei e il buddhismo dell'eterno mutamento propone una comprensione pluralista che include la contraddizione nella natura della realtà invece di escluderla. La società occidentale riconosce il pericolo sovversivo costituito da una simile concezione che mostra un'alternativa alla logica binaria del bene e del male. Soprattutto coglie la minaccia che il sistema ideologico capace di giustificare l'agire politico ed economico delle potenze del monoblocco occidentale possa essere messo in discussione.Nella cultura giapponese la perversione è simbolo della libertà. Non è un peccato, ma l'affermazione dell'individualità. L'etica confuciana condannava il doppio suicidio per amore (shinju), eppure la maggioranza dei giapponesi era attratta da questa affermazione assoluta dell'individuo capace di opporsi alla società. Il successo dei drammi sull'argomento dimostrò l'artificiosità dell'etica e il prevalere della passionalità sulla burocrazia. Insomma, per i giapponesi il confronto fra eros ed ethos vede prevalere di misura il primo (qualcosa di simile avveniva nella tragedia dei greci, anch'essi pagani come i giapponesi). Nel 1908 la scrittrice Hiratsuka Raicho aveva emblematicamente affermato il primato dell'individuo tentando il suicidio con il suo amante. Nel 1948 commise shinju Dazai Osamu, scrittore dissacratore della società contemporanea. Nel 1970 si suicidò Mishima Yukio artefice della "morte erotica" (definizione del biografo John Nathan). In tutta la sua opera egli aveva indicato l'identità di eros ed ethos. Dunque assistiamo a una costante nella storia culturale giapponese. Gli occidentali non soltanto considerano il suicidio un peccato, ma addirittura un tabù. Non se ne discute, e chi lo pratica viene considerato disturbato, oppure commiserato per l'errore commesso. Gli occidentali sono così schiavi del loro dio unico che non posseggono nemmeno la propria vita. Poiché la vita è considerata un dono di dio, nessuno può privarsene essendo cosa che non gli appartiene. La violazione equivale a un peccato mortale, all'abuso della proprietà altrui. Così si smaschera l'ipocrisia dell'individualismo occidentale, una forma di alienazione della vita che viene concessa dalla divinità. La stessa forma di alienazione efficacemente applicata dal capitalismo che espropria il lavoro al lavoratore. La religione occidentale espropria la vita al vivente. Non è una coincidenza se si considera l'analisi di Max Weber che rintraccia una sostanziale influenza fra cristianesimo e capitalismo(4). La pericolosità della perversione giapponese non è etica, ma assolutamente politica, come stiamo qui scoprendo. La gestione dell'eros corrisponde a dominare l'organizzazione sociale contemporanea. Il timore per il potere economico giapponese è calato, però non è diminuita la minaccia rappresentata dall'eros nipponico. Le strane tribù giapponesi stanno contaminando i giovani e ingenui adolescenti europei con un armamentario straordinario e terrificante di fantasie e perversioni. Nessuna legge e censura è riuscita finora ad arrestare la minaccia. Attraverso la lettura dei manga si alimenta una passione evasiva ed eversiva che danneggia, così si crede, i futuri cittadini europei. Questa è la tesi sotterranea che alimenta i pregiudizi sui giovani e le loro letture. I segnali inquietanti della degenerazione sono colti nelle manifestazioni della disubbidienza. Il rifiuto totale della guerra espresso dai cortei pacifisti ne sarebbe l'indizio. Ciò che spaventa è una gioventù ribelle priva di ideologia che contesta radicalmente il modello occidentale.Se le cose stanno così, allora conviene schierarsi dalla parte della perversione, proclamando la virtù della perversione. I giovani italiani hanno conosciuto l'atrocità della guerra attraverso le snervanti battaglie giapponesi proiettate sui teleschermi(5). Se per gli adulti esse erano diseducative, perché strabordanti di violenza, per gli adolescenti erano istruttive perché mostravano l'autentico volto della guerra. Alle parole dei moralisti si opponeva il sangue che colava sulla spada. Nel Novecento si poteva parlare senza smentita di guerra giusta, nel Terzo Millennio ciò non era più consentito senza una vigorosa reazione di sdegno. La nuova generazione condannava sia la guerra giusta sia la guerra santa come artifici retorici per giustificare la guerra atroce. La minaccia si era tramutata in realtà: i fumetti e l'animazione giapponese avevano educato gli adolescenti secondo i valori del paese del Sol Levante, una nazione che aveva conosciuto gli orrori della guerra, del militarismo, dell'industrializzazione selvaggia e aveva reagito con vigore e prontezza fornendo una critica severa dell'imperialismo e del capitalismo.La pedagogia occidentale ha cercato inutilmente di imporre le avventure dei paperi in sostituzione delle oscene studentesse guerriere. Non vi è riuscita. Nemmeno i comitati organizzati dagli esperti Maria Rita Parsi, Vera Slepoj e Antonio Marziale, instancabili oppositori di anime e manga, sono riusciti a cancellare i cartoni animati giapponesi dallo schermo. Perfino le leggi più severe si sono rivelate inapplicabili. Perché? La risposta è semplice e disarmante. Manga e anime presentano una prospettiva capace di fornire una lettura critica della realtà. Cancellarli equivarrebbe a evitare di mettere in discussione la realtà. Ma chi ha assaggiato il frutto proibito dell'albero della conoscenza vuole continuare a mangiarne. Chi ha cominciato a pensare liberamente non accetta le imposizioni di un dio che ci vuole mantenere nell'ignoranza.Questo per quanto riguarda la situazione italiana. Ma per la società giapponese, quali considerazioni vanno svolte? Ciò che gli studiosi hanno mancato di sottolineare è la capacità della cultura giapponese di creare forti voci di dissenso. In Giappone, come abbiamo già evidenziato, l'eros è associato alla libertà tanto che si potrebbe studiare una corrente del liberalismo sessuale tipicamente giapponese. Essa ebbe le sue origini nella cultura del periodo Edo (1600-1867) e nel mondo fluttuante (ukiyo) che fu la fucina degli intellettuali e della borghesia in opposizione al regime dominante. In quel periodo vi fu una corrispondenza fra potere economico e classe emergente, in parte favorita e in parte ostacolata dal potere politico shogunale. L'eredità di questa tradizione erotico-liberale si può ritrovare negli attuali artisti giapponesi come il fotografo Araki Nobuyoshi, l'illustratore Sorayama Hajime, e l'autrice di "ladies comics" Morizono Milk. Gli artisti giapponesi non hanno mai cessato di considerare la sessualità come una forza della natura talmente potente da sovvertire il fragile e artificiale ordine sociale.In conclusione si può affermare che l'autentica oscenità (etchi) è costituita dalla libertà di pensiero che come il desiderio erotico si accende, avviluppa e sviluppa senza porsi limiti.
Note
1. Martorella, Cristiano. Gioventù giapponese e letteratura come vita. Relazione al convegno "Magico come un libro". Biblioteca Internazionale per la Gioventù E. De Amicis, Genova, 15 novembre 2001.
2. Martorella, Cristiano. Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 1, gennaio-marzo 2003, pp. 67-71.
3. Gli articoli da citare potrebbero essere tantissimi, ma ci limitiamo ai più importanti: Pisu, Renata. Samurai robot, in "L'Espresso", anno XLVIII, n. 29, 18 luglio 2002, pp. 112-116; D'Emilia, Pio. Jap Mania, in "Marie Claire", anno I, n. 3, marzo 2003, pp. 304-314.
4. Weber, Max. 1945. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Sansoni, Firenze.
5. Importante in tal senso l'intervento di Marco Pellitteri sul tema della guerra nei fumetti, che ribadisce il valore pedagogico delle opere giapponesi. Cfr. Pellitteri, Marco. La follia della guerra narrata ai ragazzi. La storia nei fumetti, in "Il Pepeverde", n. 5, 2000, pp. 21-23.
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domenica 1 giugno 2008
Il kawaii prima del kawaii
Ripropongo il mio paragrafo Il kawaii prima del kawaii pubblicato nel libro Anatomia di Pokémon. Può essere una lettura interessante per chi non ha avuto occasione di procurarsi il volume.
Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.
Il kawaii prima del kawaii
di Cristiano Martorella
Con il termine di cultura kawaii si indica il gusto e l’atteggiamento di una generazione di giovani giapponesi (la fascia d’età si sta allargando sempre più) che si riconoscono in una mancanza di ideologia e preferiscono rifugiarsi in un mondo infantile costituito da moine, atteggiamenti puerili, mode eclettiche e kitsch del vestiario, gadget, tendenze e linguaggi da bambino, cercando di ritardare sempre più la partecipazione al mondo adulto. La parola kawaii significa infatti "carino", ed acquista una connotazione particolare per indicare questo universo giovanile in continuo mutamento. Il fenomeno ha assunto importanza e attenzione quando i sociologi hanno cominciato a scriverne ampiamente, e a caratterizzare con il termine cultura kawaii fenomeni diversi che abbracciavano però una stessa tipologia di giovani. Probabilmente, il successo della definizione di cultura kawaii è attribuibile alla sociologa statunitense Merry White che ne fece un uso molto preciso in alcuni suoi scritti (cfr. Merry White, The Material Child. Coming of Age in Japan and America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1994).
Questo ideal-tipo è servito ad orientarsi abbastanza bene nel magmatico e sempre mutevole mondo giovanile giapponese, ma più spesso ha offerto problemi di carattere generale quando si cercava di comprendere il comportamento delle diverse generazioni di giapponesi considerate simultaneamente, e non forniva nessun tipo di spiegazione plausibile sulla società giapponese contemporanea complessiva. E ciò contribuiva a tenere separati gli studi antropologici sulla cultura dei consumi e dei mass-media dagli studi sociologici di carattere generale, creando un certo ritardo nella comprensione dei fenomeni ed etichettando come sub-cultura ciò che non rientrava nel modello più ampio e generale della società giapponese.
È possibile parlare del kawaii senza chiuderci in questa prospettiva, senza rinunciare a una spiegazione del fenomeno all’interno dell’intera cultura giapponese? Sicuramente un’analisi di questo genere deve tenere presente due livelli che fanno riferimento al kawaii: 1) sociologico 2) estetico. Infatti è soprattutto grazie al secondo, l’estetico, che viene costruita concretamente la cultura kawaii. Un’idea chiara del livello estetico permette una comprensione (verstehen secondo la terminologia weberiana che qui rispettiamo) delle relazioni e delle azioni dei singoli individui.
Premesso ciò, partiremo dal livello sociologico per mostrare le difficoltà che nascono senza un’opportuna conoscenza del funzionamento dell’aspetto estetico. Cercheremo di superare questa impasse grazie all’introduzione di una proposta di lettura del kawaii a livello estetico.
La cultura del kawaii viene generalmente inserita nel contesto più ampio del concetto di moratoria (in giapponese moratoriamu), ossia il rifiuto di crescere, di entrare a far parte del mondo adulto e il tentativo di cristallizzare l’età infantile a tempo indeterminato. Essa si manifesterebbe come un fenomeno di disimpegno sociale, di rigetto dei valori e dei ruoli sociali (compreso il gender), di rifugio nell’immagine di eterno bambino (cfr. Hoshino Katsumi, Shohi no jinruigaku, Toyo keizai shinposha, Tokyo,1984). Però ci sono alcuni punti di questo modello teorico che non rispondono alla realtà osservata, e c’è da sospettare che ci siano almeno degli aspetti trascurati.
Se la cultura del kawaii corrispondesse al concetto di moratoria, a una contestazione non ideologica al sistema di valori tradizionali della società giapponese, non si capirebbe perché dopo trent’anni di osservazione del fenomeno non si sono riscontrati sensibili cambiamenti nella società stessa. Le generazioni a cui si riferivano i primi studi sono ormai integrate, volenti o nolenti, nel mondo adulto. Ed esse stesse contribuiscono a sostenere e tramandare quei valori apparentemente contestati.
Si dovrebbe pensare che il sistema di valori della società giapponese è talmente forte da piegare ogni tipo di reazione? Ma per dimostrare qualcosa del genere si dovrebbe fare ricorso a spiegazioni aberranti (c’è chi ha provato a farlo, ma questo genere di spiegazioni lascia comunque molto insoddisfatti). Invece è molto più semplice inquadrare il problema in una prospettiva generale che è stata già studiata, quella del conflitto fra generazioni, e approfondire piuttosto l’analisi dei valori tramandati e contestati.
Quando gli studiosi del XIX secolo imbastirono i primi tentativi di teorie per spiegare questi fenomeni, trovarono un supporto molto utile nella raccolta sedimentata e razionalizzata di valori ed emozioni del mito greco. Ciò è talmente significativo che ancora oggi possiamo ricordare il mito di Crono per comprendere la dialettica del conflitto fra generazioni. Il padre di Crono era Urano, padrone dell’universo che per conservare il potere relegava i figli nel Tartaro, il regno degli inferi. Crono si ribellò e con una falce mutilò il padre. Ma egli stesso ebbe un comportamento identico, anzi ancora più brutale, divorando i figli. In pratica sostituì il suo stomaco al Tartaro. Con l’inganno si sottrasse a tale sorte il figlio Zeus che lo vinse e spodestò (cfr. Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998). In parole semplici, Crono non fece altro che uccidere il padre e sostituirsi a lui acquisendone lo stesso ruolo e i medesimi valori. Ciò ci permette di mettere in evidenza come il conflitto fra generazioni comporti l’interiorizzazione dei valori della generazione precedente in quella successiva. La dialettica padre-figlio è stata studiata anche da Georges Balandier che descrive puntualmente i meccanismi di riproduzione sociale, della dinamica dei gruppi, e della strutturazione della società (Georges Balandier, Società e dissenso, Dedalo, Bari, 1977). Questo non significa che le società restino immobili e prive di cambiamenti, ma soltanto che non bisogna farsi ingannare da un conflitto generazionale che è una tappa necessaria dell’organizzazione sociale. Le trasformazioni sociali, spesso grandi, avvengono e investono livelli diversi che riguardano direttamente le strutture sociali (si pensi al quadro descritto da Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974).
Queste premesse e osservazioni ci sono servite per respingere l’idea che la cultura kawaii sia una forma di contestazione che si oppone radicalmente alla cultura giapponese tout court. La nostra tesi sostiene invece che il kawaii non è altro che una interiorizzazione in forme estreme e singolari dei valori giapponesi tradizionali. Se dovessimo accettare la tesi che interpreta la cultura kawaii come antitetica alla cultura tradizionale giapponese, dovremmo paragonare i due sistemi e trovare delle differenze nette e sostanziali. In effetti, esiste un concetto che sembra rappresentare l’antitesi della cultura kawaii, si tratta della cultura del samurai. In tal senso siamo fortunati perché le opere sulla cosiddetta cultura del samurai sono abbondanti, a partire da Bushido, testo chiaro e fondamentale (Nitobe Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998, il testo originale risale però al 1900). Ma è proprio studiando la cultura tradizionale giapponese che non si riescono a trovare antitesi con la cultura kawaii, ma la contrario si scoprono le sue origini e se ne comprendono le motivazioni.
La cultura del samurai fonda la sua etica sull’integrità e l’onore del singolo individuo, tramite la disciplina zen che definisce gli aspetti della vita secondo una dottrina non finalistica e non salvifica. Questo non è un particolare irrilevante, poiché l’etica del samurai non ha nulla in comune con il concetto occidentale di morale. Essa è essenzialmente orientata al soggetto e indifferente. Adesso, riscontriamo che anche la cultura kawaii è orientata al soggetto e indifferente. Come sanno bene gli orientalisti, l’etica del samurai non è nemmeno una morale nel senso occidentale, ma piuttosto una forma estetizzante della vita (cfr. Joseph Campbell, Mitologia orientale, Mondadori, Milano, 1991). Lo stesso samurai paragonava la sua esistenza al fiore di ciliegio, bello ed effimero. E la produzione artistica è profondamente caratterizzata dall’attenzione e sensibilità per le facezie, le piccole cose quasi insignificanti, i particolari (cfr. Sei Shonagon, Note del guanciale, Mondadori, Milano, 1990).
Famosa è l’espressione mono no aware wo shiru (sentire il sentimento delle cose), una sorta di compenetrazione dell’animo nel mondo circostante. Ebbene, è lo stesso principio che permette nella cultura kawaii di far assurgere a massimo valore un gadget, un nastro o qualsiasi altro oggetto futile che viene investito con una connotazione emotiva.
A questo punto siamo arrivati al livello estetico. Chiunque voglia tentare di spiegare l’estetica giapponese deve partire dall’opera ormai fondamentale di Kuki sul sentimento giapponese del grazioso (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Un’analisi accurata ci permette di definire il kawaii come una mutazione, uno spostamento dell’iki (grazia) rispetto alle coordinate fissate da Kuki. Questo non significa che il kawaii non sia in relazione con i sentimenti del bello tradizionali dei giapponesi, anzi ne individua le origini e ne spiega il funzionamento. Tenendo presente lo studio di Kuki, riconosciamo che il kawaii ha in comune con l’iki alcuni punti. Ad esempio, una specie di liberazione (gedatsu) dalla convenzione attraverso il piacere e un’anima disponibile al cambiamento. Rispetto all’iki, c’è uno spostamento verso la vistosità (hade) e soprattutto una vicinanza alla dolcezza (amami), ma come l’iki conserva una relazione con la distinzione (johin). Sembrerebbe che le ultime tendenze delle ragazze di Tokyo confermino questo modello. Infatti è emerso un nuovo gruppo della cultura kawaii che si definisce ego-make. Caratteristica del kawaii sarebbe appunto la ricerca di questa distinzione, dell’essere diversi (e non contro qualcosa o qualcuno).
In conclusione, sembrerebbe che il quadro sia ormai completo. Ma un ultimo caso, abbastanza importante, può essere fornito per concludere questa rilettura della cultura kawaii. Si tratta del teatro Takarazuka (una sua descrizione ci è fornita da Renata Pisu, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001).
Il Takarazuka è la forma più esplicita della cultura kawaii eppure le sue origini risalgono al 1916 circa. In quell’anno l’imprenditore Kobayashi Ichizo decise di fondare un teatro composto da sole ragazze (rigorosamente vergini, pena l’espulsione) per aumentare l’attrattiva di una piccola cittadina, Takarazuka nella prefettura di Hyogo, poco distante da Osaka. Oggi Takarazuka è diventata un monumento vivente della cultura kawaii caratterizzata da questo concetto estremo di femminilità e innocenza infantile. Il teatro Takarazuka è anche il simbolo, con le sue attrici (adorate soprattutto da un pubblico femminile), di un modello estetico androgino, una indifferenza al gender in nome di un ideale estetico superiore. E questo non dovrebbe meravigliarci considerando l’insistenza sull’identificazione dell’etica giapponese in una forma di estetica onnicomprensiva.
In conclusione, il kawaii non è affatto una sub-cultura, ma una parte integrata e fondamentale della cultura giapponese senza la quale non sarebbe concepibile e costruibile la complessità di quel sistema di valori. Le stesse attrici del Takarazuka ci ricordano quanto il loro essere diverse (johin, distintive) sia una qualità apprezzata che permette di integrarsi perfettamente. Infatti, dopo la breve carriera (l’età è fondamentale) ricevono richieste di matrimonio da importanti personaggi. L’attrice del Takarazuka, così come una volta la geisha, viene considerata una sposa ideale perché conoscitrice delle arti tradizionali (ikebana e chado) e della disciplina. Si tratta quindi di una prospettiva ben diversa che ci faceva immaginare la cultura kawaii come marginale e in opposizione alla società. Anche le altre aidoru, ma anche le ragazze più semplici (come le commesse di importanti locali, chiamate karisuma, carisma, che dettano le tendenze), sono una realtà propositiva e altamente produttiva. Una società consumistica e altamente sviluppata sotto il profilo tecnologico come quella giapponese, ha bisogno delle risorse della cultura kawaii per promuovere e incentivare lo sviluppo spasmodico del sistema.
Piaccia o non piaccia, la cultura kawaii è altamente integrata nella società giapponese ed è all’origine della produzione creativa che ha permesso lo sviluppo di una società che ha conosciuto un benessere come nessun’altra per trent’anni ininterrotti. Se quel ciclo sta conoscendo attualmente un rallentamento, è da auspicare, come indicato dall’economista Ohmae Kenichi (Omae Ken'ichi) , che si trovino le risorse creative e l’entusiasmo nelle nuove generazioni, le stesse che sono portatrici della cultura kawaii (cfr. Ohmae Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, pp.350-351).
Paragrafo del libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.
Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.
Il kawaii prima del kawaii
di Cristiano Martorella
Con il termine di cultura kawaii si indica il gusto e l’atteggiamento di una generazione di giovani giapponesi (la fascia d’età si sta allargando sempre più) che si riconoscono in una mancanza di ideologia e preferiscono rifugiarsi in un mondo infantile costituito da moine, atteggiamenti puerili, mode eclettiche e kitsch del vestiario, gadget, tendenze e linguaggi da bambino, cercando di ritardare sempre più la partecipazione al mondo adulto. La parola kawaii significa infatti "carino", ed acquista una connotazione particolare per indicare questo universo giovanile in continuo mutamento. Il fenomeno ha assunto importanza e attenzione quando i sociologi hanno cominciato a scriverne ampiamente, e a caratterizzare con il termine cultura kawaii fenomeni diversi che abbracciavano però una stessa tipologia di giovani. Probabilmente, il successo della definizione di cultura kawaii è attribuibile alla sociologa statunitense Merry White che ne fece un uso molto preciso in alcuni suoi scritti (cfr. Merry White, The Material Child. Coming of Age in Japan and America, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1994).
Questo ideal-tipo è servito ad orientarsi abbastanza bene nel magmatico e sempre mutevole mondo giovanile giapponese, ma più spesso ha offerto problemi di carattere generale quando si cercava di comprendere il comportamento delle diverse generazioni di giapponesi considerate simultaneamente, e non forniva nessun tipo di spiegazione plausibile sulla società giapponese contemporanea complessiva. E ciò contribuiva a tenere separati gli studi antropologici sulla cultura dei consumi e dei mass-media dagli studi sociologici di carattere generale, creando un certo ritardo nella comprensione dei fenomeni ed etichettando come sub-cultura ciò che non rientrava nel modello più ampio e generale della società giapponese.
È possibile parlare del kawaii senza chiuderci in questa prospettiva, senza rinunciare a una spiegazione del fenomeno all’interno dell’intera cultura giapponese? Sicuramente un’analisi di questo genere deve tenere presente due livelli che fanno riferimento al kawaii: 1) sociologico 2) estetico. Infatti è soprattutto grazie al secondo, l’estetico, che viene costruita concretamente la cultura kawaii. Un’idea chiara del livello estetico permette una comprensione (verstehen secondo la terminologia weberiana che qui rispettiamo) delle relazioni e delle azioni dei singoli individui.
Premesso ciò, partiremo dal livello sociologico per mostrare le difficoltà che nascono senza un’opportuna conoscenza del funzionamento dell’aspetto estetico. Cercheremo di superare questa impasse grazie all’introduzione di una proposta di lettura del kawaii a livello estetico.
La cultura del kawaii viene generalmente inserita nel contesto più ampio del concetto di moratoria (in giapponese moratoriamu), ossia il rifiuto di crescere, di entrare a far parte del mondo adulto e il tentativo di cristallizzare l’età infantile a tempo indeterminato. Essa si manifesterebbe come un fenomeno di disimpegno sociale, di rigetto dei valori e dei ruoli sociali (compreso il gender), di rifugio nell’immagine di eterno bambino (cfr. Hoshino Katsumi, Shohi no jinruigaku, Toyo keizai shinposha, Tokyo,1984). Però ci sono alcuni punti di questo modello teorico che non rispondono alla realtà osservata, e c’è da sospettare che ci siano almeno degli aspetti trascurati.
Se la cultura del kawaii corrispondesse al concetto di moratoria, a una contestazione non ideologica al sistema di valori tradizionali della società giapponese, non si capirebbe perché dopo trent’anni di osservazione del fenomeno non si sono riscontrati sensibili cambiamenti nella società stessa. Le generazioni a cui si riferivano i primi studi sono ormai integrate, volenti o nolenti, nel mondo adulto. Ed esse stesse contribuiscono a sostenere e tramandare quei valori apparentemente contestati.
Si dovrebbe pensare che il sistema di valori della società giapponese è talmente forte da piegare ogni tipo di reazione? Ma per dimostrare qualcosa del genere si dovrebbe fare ricorso a spiegazioni aberranti (c’è chi ha provato a farlo, ma questo genere di spiegazioni lascia comunque molto insoddisfatti). Invece è molto più semplice inquadrare il problema in una prospettiva generale che è stata già studiata, quella del conflitto fra generazioni, e approfondire piuttosto l’analisi dei valori tramandati e contestati.
Quando gli studiosi del XIX secolo imbastirono i primi tentativi di teorie per spiegare questi fenomeni, trovarono un supporto molto utile nella raccolta sedimentata e razionalizzata di valori ed emozioni del mito greco. Ciò è talmente significativo che ancora oggi possiamo ricordare il mito di Crono per comprendere la dialettica del conflitto fra generazioni. Il padre di Crono era Urano, padrone dell’universo che per conservare il potere relegava i figli nel Tartaro, il regno degli inferi. Crono si ribellò e con una falce mutilò il padre. Ma egli stesso ebbe un comportamento identico, anzi ancora più brutale, divorando i figli. In pratica sostituì il suo stomaco al Tartaro. Con l’inganno si sottrasse a tale sorte il figlio Zeus che lo vinse e spodestò (cfr. Esiodo, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998). In parole semplici, Crono non fece altro che uccidere il padre e sostituirsi a lui acquisendone lo stesso ruolo e i medesimi valori. Ciò ci permette di mettere in evidenza come il conflitto fra generazioni comporti l’interiorizzazione dei valori della generazione precedente in quella successiva. La dialettica padre-figlio è stata studiata anche da Georges Balandier che descrive puntualmente i meccanismi di riproduzione sociale, della dinamica dei gruppi, e della strutturazione della società (Georges Balandier, Società e dissenso, Dedalo, Bari, 1977). Questo non significa che le società restino immobili e prive di cambiamenti, ma soltanto che non bisogna farsi ingannare da un conflitto generazionale che è una tappa necessaria dell’organizzazione sociale. Le trasformazioni sociali, spesso grandi, avvengono e investono livelli diversi che riguardano direttamente le strutture sociali (si pensi al quadro descritto da Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974).
Queste premesse e osservazioni ci sono servite per respingere l’idea che la cultura kawaii sia una forma di contestazione che si oppone radicalmente alla cultura giapponese tout court. La nostra tesi sostiene invece che il kawaii non è altro che una interiorizzazione in forme estreme e singolari dei valori giapponesi tradizionali. Se dovessimo accettare la tesi che interpreta la cultura kawaii come antitetica alla cultura tradizionale giapponese, dovremmo paragonare i due sistemi e trovare delle differenze nette e sostanziali. In effetti, esiste un concetto che sembra rappresentare l’antitesi della cultura kawaii, si tratta della cultura del samurai. In tal senso siamo fortunati perché le opere sulla cosiddetta cultura del samurai sono abbondanti, a partire da Bushido, testo chiaro e fondamentale (Nitobe Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998, il testo originale risale però al 1900). Ma è proprio studiando la cultura tradizionale giapponese che non si riescono a trovare antitesi con la cultura kawaii, ma la contrario si scoprono le sue origini e se ne comprendono le motivazioni.
La cultura del samurai fonda la sua etica sull’integrità e l’onore del singolo individuo, tramite la disciplina zen che definisce gli aspetti della vita secondo una dottrina non finalistica e non salvifica. Questo non è un particolare irrilevante, poiché l’etica del samurai non ha nulla in comune con il concetto occidentale di morale. Essa è essenzialmente orientata al soggetto e indifferente. Adesso, riscontriamo che anche la cultura kawaii è orientata al soggetto e indifferente. Come sanno bene gli orientalisti, l’etica del samurai non è nemmeno una morale nel senso occidentale, ma piuttosto una forma estetizzante della vita (cfr. Joseph Campbell, Mitologia orientale, Mondadori, Milano, 1991). Lo stesso samurai paragonava la sua esistenza al fiore di ciliegio, bello ed effimero. E la produzione artistica è profondamente caratterizzata dall’attenzione e sensibilità per le facezie, le piccole cose quasi insignificanti, i particolari (cfr. Sei Shonagon, Note del guanciale, Mondadori, Milano, 1990).
Famosa è l’espressione mono no aware wo shiru (sentire il sentimento delle cose), una sorta di compenetrazione dell’animo nel mondo circostante. Ebbene, è lo stesso principio che permette nella cultura kawaii di far assurgere a massimo valore un gadget, un nastro o qualsiasi altro oggetto futile che viene investito con una connotazione emotiva.
A questo punto siamo arrivati al livello estetico. Chiunque voglia tentare di spiegare l’estetica giapponese deve partire dall’opera ormai fondamentale di Kuki sul sentimento giapponese del grazioso (Kuki Shuzo, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano, 1992). Un’analisi accurata ci permette di definire il kawaii come una mutazione, uno spostamento dell’iki (grazia) rispetto alle coordinate fissate da Kuki. Questo non significa che il kawaii non sia in relazione con i sentimenti del bello tradizionali dei giapponesi, anzi ne individua le origini e ne spiega il funzionamento. Tenendo presente lo studio di Kuki, riconosciamo che il kawaii ha in comune con l’iki alcuni punti. Ad esempio, una specie di liberazione (gedatsu) dalla convenzione attraverso il piacere e un’anima disponibile al cambiamento. Rispetto all’iki, c’è uno spostamento verso la vistosità (hade) e soprattutto una vicinanza alla dolcezza (amami), ma come l’iki conserva una relazione con la distinzione (johin). Sembrerebbe che le ultime tendenze delle ragazze di Tokyo confermino questo modello. Infatti è emerso un nuovo gruppo della cultura kawaii che si definisce ego-make. Caratteristica del kawaii sarebbe appunto la ricerca di questa distinzione, dell’essere diversi (e non contro qualcosa o qualcuno).
In conclusione, sembrerebbe che il quadro sia ormai completo. Ma un ultimo caso, abbastanza importante, può essere fornito per concludere questa rilettura della cultura kawaii. Si tratta del teatro Takarazuka (una sua descrizione ci è fornita da Renata Pisu, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001).
Il Takarazuka è la forma più esplicita della cultura kawaii eppure le sue origini risalgono al 1916 circa. In quell’anno l’imprenditore Kobayashi Ichizo decise di fondare un teatro composto da sole ragazze (rigorosamente vergini, pena l’espulsione) per aumentare l’attrattiva di una piccola cittadina, Takarazuka nella prefettura di Hyogo, poco distante da Osaka. Oggi Takarazuka è diventata un monumento vivente della cultura kawaii caratterizzata da questo concetto estremo di femminilità e innocenza infantile. Il teatro Takarazuka è anche il simbolo, con le sue attrici (adorate soprattutto da un pubblico femminile), di un modello estetico androgino, una indifferenza al gender in nome di un ideale estetico superiore. E questo non dovrebbe meravigliarci considerando l’insistenza sull’identificazione dell’etica giapponese in una forma di estetica onnicomprensiva.
In conclusione, il kawaii non è affatto una sub-cultura, ma una parte integrata e fondamentale della cultura giapponese senza la quale non sarebbe concepibile e costruibile la complessità di quel sistema di valori. Le stesse attrici del Takarazuka ci ricordano quanto il loro essere diverse (johin, distintive) sia una qualità apprezzata che permette di integrarsi perfettamente. Infatti, dopo la breve carriera (l’età è fondamentale) ricevono richieste di matrimonio da importanti personaggi. L’attrice del Takarazuka, così come una volta la geisha, viene considerata una sposa ideale perché conoscitrice delle arti tradizionali (ikebana e chado) e della disciplina. Si tratta quindi di una prospettiva ben diversa che ci faceva immaginare la cultura kawaii come marginale e in opposizione alla società. Anche le altre aidoru, ma anche le ragazze più semplici (come le commesse di importanti locali, chiamate karisuma, carisma, che dettano le tendenze), sono una realtà propositiva e altamente produttiva. Una società consumistica e altamente sviluppata sotto il profilo tecnologico come quella giapponese, ha bisogno delle risorse della cultura kawaii per promuovere e incentivare lo sviluppo spasmodico del sistema.
Piaccia o non piaccia, la cultura kawaii è altamente integrata nella società giapponese ed è all’origine della produzione creativa che ha permesso lo sviluppo di una società che ha conosciuto un benessere come nessun’altra per trent’anni ininterrotti. Se quel ciclo sta conoscendo attualmente un rallentamento, è da auspicare, come indicato dall’economista Ohmae Kenichi (Omae Ken'ichi) , che si trovino le risorse creative e l’entusiasmo nelle nuove generazioni, le stesse che sono portatrici della cultura kawaii (cfr. Ohmae Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, pp.350-351).
Paragrafo del libro Anatomia di Pokémon. Cfr. Cristiano Martorella, Il kawaii prima del kawaii, in Marco Pellitteri (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002, pp.185-192.
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