domenica 20 novembre 2011

Manga Academica 4

Il quarto volume di Manga Academica, rivista scientifica dedicata alla cultura e al fumetto giapponese curata da Gianluca Di Fratta, è stato pubblicato.

Manga Academica Vol.4, Società Editrice La Torre, Caserta, 2011. Il volume contiene un saggio introduttivo di Cristiano Martorella e un manga inedito di Moto Hagio.


Cristiano Martorella, Perverso e controverso: il sesso nella cultura giapponese, in "Manga Academica", Vol.4, Società Editrice La Torre, Caserta, 2011, pp.9-22.

lunedì 20 giugno 2011

Letteratura, tecnologia e manga

Articolo sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.


Dokusho
La lettura fra scienza e tecnologia
di Cristiano Martorella

Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?
Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).
Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.
Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi. L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio. La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?


Note

1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.

Bibliografia

Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.
Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.
Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.
Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.
Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.
Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.




Articolo pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.

La tecnologia giapponese

Koden
di Cristiano Martorella

Con il termine koden si indica una serie di interfacce elettroniche. Traducibile all’incirca come "individuo elettrificato", la parola giapponese è composta da ko (individuale) e denshi (elettronico). Dunque, una integrazione dell’elettronica con l’organismo umano, così come immaginato da Nicholas Negroponte (1). Sarebbe un koden, ad esempio, il walkman della Sony che permette di camminare ascoltando musica. Oppure la playstation che proietta l’individuo in un mondo virtuale interagendo con la realtà simulata.
Molti hanno interpretato negativamente il fenomeno koden. Renata Pisu ha usato toni apocalittici parlando di "scenari di mutazioni globali". Non è però la prima volta che la tecnologia giapponese viene descritta con la prospettiva dell’ideologia.
Nicholas Negroponte, fra i massimi esperti di informatica e tecnologia digitale, ha colto invece le possibilità positive di queste trasformazioni.

"Media da indossare. Velluti che fanno calcoli, mussole dotate di memoria, sete a energia solare: con questi tessuti potrebbero essere fatti gli abiti digitali di domani. Invece di tenere il computer in mano, indossalo. Anche se non ce ne rendiamo conto, già ora ci portiamo addosso un numero sempre maggiore di dispositivi per elaborare e comunicare. L’orologio da polso è il più comune. Da strumento per misurare il tempo qual è oggi, si trasformerà domani in un centro mobile di comando e controllo. Lo si porta con tale naturalezza, che molta gente se lo tiene anche quando dorme". (2)

Completamente diversa l’opinione di Renata Pisu che vede la tecnologia come una minaccia, come risulta dal seguente brano:

"Ma anche senza arrivare a questi estremi, come mai l’elettronica di consumo riscuote tanto successo in Giappone più che in ogni altro paese del mondo? C’è forse qualcosa di connaturato nella cultura giapponese, una naturale predisposizione a mettere sullo stesso piano organico e inorganico? […] Ma si tratta di affettività umana o "umanoide"? Il quesito può apparire assurdo, eppure l’orrendo termine giapponoide sta già entrando nell’uso per indicare i giapponesi, uomini la cui umanità avrebbe subito una mutazione. Si presentano, infatti, come pre-moderni e post-moderni, si direbbe quasi che la modernità fosse stata vissuta da loro come un tempo fuori dal tempo, durante il quale alacremente, si sono appropriati della tecnologia venuta da lontano per poi introiettarla. E questa introiezione avrebbe provocato in loro la mutazione: da giapponese a giapponoide, cioè un umano che vive in un paese dove è stata realizzata una sorta di tecno-utopia, un umano che è un koden, un individuo il cui corpo è elettronificato e che non potrebbe vivere senza le sue protesi tecnologiche, sempre più "incorporate", cioè pensate in modo da fondersi con la persona, oppure studiate in modo da condizionare i ritmi e i piaceri".

Ma le affermazioni di Renata Pisu non si fermano qui. Il koden è addirittura paragonato alla droga: il computer e la playstation come l’eroina.

"Il fenomeno limite dell’hikikomori è possibile soltanto in una società che ha attuato questa elettronificazione di massa e che permette, quindi, ai giovanissimi un rifiuto della realtà grazie al sostituto virtuale ottenibile con le varie "protesi", da Internet al videogioco, alle quali tutti hanno accesso. In società meno tecnologicamente avanzate, il rifiuto si esprime in altri modi, con la droga prima di tutto e poi con la violenza o con altri vari tipi di comportamenti asociali". (3)

Renata Pisu dimostra, senza accorgersene, quanto sbaglia. Non sono necessarie droghe chimiche o virtuali per delirare. Infatti è semplicemente sufficiente aderire a un’ideologia per vedere nel diverso, in questo caso il Giappone e i giovani, l’apice di tutti i mali.
A favore dell’interpretazione propositiva della tecnologia giapponese ci sono le ricerche di numerosi studiosi che sono state sistematicamente occultate per costruire una rappresentazione stereotipata e negativa del Giappone contemporaneo. Il volume Electric geisha (4) presenta un quadro totalmente diverso da quello descritto da Renata Pisu. Gli autori, estremamente qualificati (sono quasi tutti professori universitari), innanzitutto smentiscono l’idea di un Giappone che acquisisce, copiandole, le tecnologie occidentali. I giapponesi sono fra i maggiori inventori di brevetti, ed è ormai privo di senso pensare alla tecnologia come qualcosa di occidentale. La tecnologia non è concepibile come un’esclusiva culturale.
Electric geisha è un libro corale in cui gli autori approfondiscono i diversi aspetti che collegano la tecnologia e la cultura giapponese. Hashizume Shin’ya descrive le caratteristiche del piacere del bagno, Hayama Tsutomo racconta la passione del pachinko, Moriya Takeshi spiega il successo dei corsi di arti tradizionali, Kato Akinori si occupa del fenomeno delle vacanze all’estero, Narumi Kunihiro ci parla del karaoke, Yoshii Takao delle origini dei mezzi di comunicazione di massa nel periodo Edo (1603-1867) e Meiji (1868-1912), e così via. Insomma, argomenti concreti dove la tecnologia svolge il suo ruolo autentico: un mezzo finalizzato alla realizzazione di uno scopo.
L’interpretazione del koden da parte di autori come Renata Pisu risulta quindi parziale e viziata da pregiudizi ideologici che leggono ogni fenomeno tecnologico come diabolico. Ma la tecnologia, incluso il koden, non è né un bene né un male, è soltanto un mezzo il cui uso (buono o cattivo) dipende dall’uomo.


Note

1. Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995. Negroponte, uno dei maggiori esperti mondiali di comunicazione digitale, professore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e direttore del Media Lab.
2. Cfr. Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995, p.219.
3. Pisu, Renata, Samurai robot, in "L’Espresso", n.29, anno XLVIII, 18 luglio 2002, p.116.
4. Ueda, Atsushi (a cura di), Electric geisha, Feltrinelli, Milano, 1996.

Bibliografia

Gomarasca, Alessandro (a cura di), La bambola e il robottone, Einaudi, Torino, 2001.
Negroponte, Nicholas, Essere digitale, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.
Pisu, Renata, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2001.
Ueda, Atsushi (a cura di), Electric geisha, Feltrinelli, Milano, 1996.
Hall, Rupert e Boas Hall, Marie, Storia della scienza, Il Mulino, Bologna, 1991.

martedì 26 aprile 2011

Orientalismo vero e presunto

Orientalismo vero e presunto
Equivoci e fraintendimenti sull'opera di Hiroki Azuma
di Cristiano Martorella

La pubblicazione in Italia del libro Generazione Otaku (1) di Hiroki Azuma ha riproposto una serie di questioni spesso equivocate e fraintese, su cui è bene fare chiarezza. Alcune argomentazioni hanno infatti inquadrato il volume nell'ambito della polemica sull'orientalismo (2). Il termine orientalismo, in una accezione fortemente negativa e dispregiativa, indica un atteggiamento essenzialista che stabilisce un insieme eterogeneo di preconcetti e stereotipi sulla civiltà orientali. Il problema più grave della polemica contro l'orientalismo è lo squlibrio di questa posizione teorica che non fa distinzioni e rischia di negare le specificità delle società asiatiche e le differenze culturali.
La critica contemporanea all'orientalismo è contigua e complice dell'attacco al relativismo tipico della nostra epoca. Non capirlo significherebbe altrimenti essere incantati dalla retorica logorroica della polemica fine a se stessa, perché orientalismo e relativismo culturale sono strettamente connessi. Dal punto di vista storico, infatti, l'orientalismo nasce con l'Illuminismo nel XVIII secolo, quando i philosophes formularono l'idea di relativismo (3) fondamentale a scardinare le certezze teologiche delle epoche precedenti.
Postulare la differenza di valori, credenze, culti religiosi e istituzioni delle società non è soltanto un vezzo dei relativisti, ma è un metodo necessario e indispensabile per lo studio di qualsiasi società. Se non si applica il metodo del relativismo culturale si cade nel più becero etnocentrismo e nell'ottuso dogmatismo, o perfino nell'irrazionalismo e nella superstizione. Dunque l'orientalismo non può essere ridotto e considerato come una deformazione o tendenza equivoca, ma deve essere valutato contestualmente in relazione ai fatti storici.
L'aggravante nell'uso negativo del termine orientalismo proviene dalla citazione impropria del lavoro di Edward Said che invece ne fece un uso in un ambito filologico molto circostanziato. Infatti si è abusato degli studi dell'arabo Edward Said per rigettare la storiografia sulla civiltà giapponese, in modo da evitare qualsiasi confronto con i nipponisti e invalidare la ricerca scientifica. Se visto sotto un certo punto, ciò risulta molto buffo. Edward Said, intellettuale palestinese nato a Gerusalemme nel 1935, cita la Cina e il Giappone per far notare la confusione che avviene in orientalistica utilizzando le stesse idee per civiltà estremamente differenti (4). L'errore denunciato da Said è il medesimo che viene compiuto da chi usa il suo stesso lavoro indirizzato esclusivamente al mondo islamico per spiegare il Giappone. Edward Said nel suo libro intitolato Orientalismo, cita il Giappone soltanto sei volte e quasi sempre per indicarne le diversità dal contesto analizzato. Il fatto che il lavoro di Said sia rivolto in modo particolare al mondo islamico è dichiarato esplicitamente dall'autore, come risulta dal seguente passaggio:

"Per ragioni che esporrò tra breve ho ulteriormente limitato questo ambito di ricerca (comunque ancora estesissimo, a ben guardare) all'esperienza anglo-francese-americana nel mondo arabo e islamico, che per quasi mille anni è stato da molti punti di vista il paradigma di tutto l'Oriente. Sono così rimaste escluse vaste zone dell'Oriente geografico e culturale - India, Giappone, Cina e altre regioni dell'Estremo Oriente - , non perché queste ultime non siano importanti (è anzi ovvio che lo sono), ma perché l'esperienza europea del Vicino Oriente e del mondo islamico può essere discussa separatamente da quella dell'Estremo Oriente." (5)

Gli imitatori incauti di Edward Said, ovvero coloro che usano le sue idee in modo improprio e fuorviante, hanno cercato di sostenere che ogni studio sulla società giapponese fosse una semplice rappresentazione astratta, e soprattutto hanno contestato l'unità culturale nipponica frantumandola in decine di subculture ancora più astratte della cultura originaria. Il risultato è affascinante, ma pieno di equivoci, fraintendimenti e falsità. Soprattutto risulta ambiguo il tentativo di fornire un quadro alternativo della cultura giapponese che è però in contraddizione con la cultura tout court.
Questi equivoci sull'orientalismo sono pericolosi perché favoriscono il rischio della negazione di fatti storici accertati, sbrigativamente etichettati come preconcetti e stereotipi. Ciò non è soltanto assurdo, ma mina profondamente la credibilità degli studi inerenti alle civiltà orientali. Per quanto riguarda il Giappone, per esempio, una cattiva interpretazione dell'orientalismo impedisce di comprendere il fatto storico dell'ascesa della borghesia nell'epoca Edo (1603-1867). L'idea rozza che l'antiorientalismo presenta con superficialità, sostiene che il periodo Edo fosse caratterizzato da uno sfruttamento delle classi di contadini, artigiani e mercanti da parte dell'aristocrazia (6). In realtà è vero l'esatto contrario. La classe emergente dei commercianti aveva assunto un potere tale da condizionare i samurai. I samurai erano pagati in riso, e per ottenere la moneta necessaria, dovevano convertire il riso in denaro presso i mercanti che speculavano fortemente sul cambio. Inoltre i samurai si indebitavano spesso con i mercanti ed erano vittime di ricatti e pressioni. Le quattro classi (shimin) erano composte da aristocrazia guerriera (bushi), contadini (nomin), artigiani e commercianti (shomin). Nell'epoca Edo la classe emergente era quella dei commercianti. Addirittura molti samurai rinunciarono al loro status per diventare commercianti. Il caso più eclatante fu quello di Takatoshi Mitsui (1622-1694) che fu fra i primi a rinunciare al rango di samurai per divenire commerciante fondando i negozi Mitsui, in seguito conosciuti come un potente zaibatsu (ancora oggi esistente). Perciò si può affermare che la società giapponese sia stata caratterizzata nel suo sviluppo storico da una notevole mobilità sociale, aspetto estremamente trascurato dagli studiosi.

In conclusione, la polemica sull'orientalismo presenta più criticità dello stesso orientalismo, e offre molti più stereotipi e preconcetti. La polemica, quindi, non è soltanto inconcludente ma anche inaffidabile. Si dice che l'epoca postmoderna sia caratterizzata dall'incertezza e dall'ambiguità, ma se ciò influisce anche sulla ricerca scientifica mancando una conoscenza rigorosa e precisa, si rischia di essere invischiati in un irrazionalismo indefinito e farraginoso.


Note

1. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku. Uno studio della postmodernità, introduzione e cura di Marco Pellitteri, Jaca Book, Milano, 2010. Il titolo originale dell'opera è però diverso: Un postmoderno animalizzante. Cfr. Azuma, Hiroki, Dobutsuka suru posutomodan. Otaku kara mita Nihon shakai, Kodansha, Tokyo, 2001.
2. Sulla questione dell'orientalismo si consulti l'edizione italiana del libro di Hiroki Azuma. Cfr. Azuma, Hiroki, Generazione Otaku, op. cit., p.27.
3. Ciò dovrebbe essere ben noto anche a chi non ha approfondite conoscenze accademiche, ma ha semplicemente frequentato un corso di filosofia in qualche liceo. Si consulti, per esempio, un celebre volume di Nicola Abbagnano. Cfr. Abbagnano, Nicola, Storia della filosofia. La filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, vol.4, TEA, Milano, 1995, pp. 236-281. L'opera più ferocemente relativista e ironica è comunque il racconto Micromega di Voltaire, in cui un abitante della stella Sirio deride la credenza che l'uomo sia il centro e il fine dell'universo. Nel Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau si fa notare come la società umana sia una costruzione artificiale, e quindi relativista, che è spesso in contrapposizione con la spontaneità della vita naturale.
4. Edward Said aveva messo in evidenza queste differenze in un suo articolo sul Giappone. Cfr. Said, Edward, Un arabo a Tokyo, in AA.VV., Sol Levante, Internazionale, Roma, 1996, pp. 69-72. L'articolo era apparso sul quotidiano "Al-Hayat" del 10 luglio 1995.
5. Said, Edward, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 25-26.
6. Sulla questione si consulti Azuma, Hiroki, Genererazione Otaku, op. cit., pp. 25-26.